La famiglia Klopfer

Apparso per la prima volta nel 1911, La famiglia Klopfer è un breve, densissimo e splendido romanzo scritto da Arnold Zweig, oggi proposto da Giuntina ai lettori italiani (2018, traduzione di Enrico Paventi).

Zweig tratteggia, con grande ironia e profonda conoscenza dell’animo umano, la storia di una famiglia ebrea di origine tedesca dall’inizio dell’Ottocento ai primi del Novecento; ma nella cornice della vicenda, affidata all’ormai anziana Miriam (sorella del narratore Heinrich e unica superstite dei Klopfer) ed evidentemente aggiunta in un’edizione successiva, si cita la Shoah.

L’opera è, intanto, una straordinaria carrellata di personaggi, descritti tutti con finezza memorabile. Per prendere solo un esempio: “Ne conservo [Heinrich parla del proprio nonno, n.d.r.] un ricordo tanto nitido che saprei disegnarne un ritratto, come fa Miriam, a memoria: la corporatura bassa e corpulenta, il naso irregolare che forma, insieme al labbro superiore, un angolo acuto, la barba grigia e gli occhi lionati, ravvicinati. Il suo mento esprimeva gentilezza come quello del padre e dalla coda dei suoi occhi si diramavano a ventaglio le rughe che dissimulavano il suo sorriso, un sorriso poco appariscente, quasi di superiorità e bonariamente canzonatorio di un uomo dal senso dell’umorismo ormai colmo di rassegnazione”, p. 32.

Miriam Klopfer, si diceva, presenta le annotazioni di suo fratello Heinrich, ex primario presso l’ospedale della clinica universitaria di Gerusalemme. Egli descrive tre generazioni della propria famiglia “per divertirmi e per ampliare, nonché perfezionare la conoscenza di me stesso, dei miei cari e di Miriam”, p. 11.

Questo duplice scopo, intimo ma anche giocoso, lo induce a una narrazione priva di reticenze, volentieri sorretta da un umorismo sulfureo: “Malgrado [la zia Lina, n.d.r.] venisse picchiata e tenuta a digiuno, trovò tuttavia sempre l’occasione per divertirsi coi militari, che sceglieva senza starci tanto a pensare perché non aveva cervello. Dopo che una volta si era allontanata da casa per alcuni giorni, gli esasperati e disperati genitori la misero sottochiave; il problema fu che sembrava fuori di sé e diceva oscenità: rifiutò di mangiare fin dal quarto giorno, si stracciò i vestiti che indossava; voleva assolutamente uscire e, poiché le fu impedito, divenne preda di un furore incontrollabile perché si sentiva pazzamente attratta dagli ulani ed era convinta di aver ricevuto l’ordine di andarli a trovare in caserma”, pp. 25-6.

La genealogia del narratore è composta da personalità complesse, inclini all’arte, al potere ma anche alla malinconia e all’inconcludenza, come il padre di Heinrich, lo scrittore Peter: “La lucidità con la quale aveva descritto le varie psicologie, che viene elogiata in tutte le sue opere, non era andata oltre i suoi versi: è vero che egli conosceva bene i sentimenti e il modo di pensare degli esseri umani e aveva accostato in maniera eccellente temi ed effetti, raffinatezze e sorprese; non era tuttavia stato in grado di individuarli quando se li era ritrovati di fronte nella vita, e raramente mi è capitato di incontrare qualcuno che conoscesse il genere umano meno di lui”, p. 59.

E sarà proprio la figura di Peter a fungere da pietra angolare dell’intera narrazione (e a motivare una certa ferocia che sovente traspare dalle parole di Heinrich). Il padre rappresenta infatti la ragione profonda per cui sono state scritte queste pagine: “Questo scritto costituisce una vendetta”, p. 73. Ma perché?

Perché Peter, suicidandosi, ha lasciato i suoi figli in una sorta di limbo. Anzitutto culturale: provenendo da una famiglia sì ebraica ma di ceppo tedesco, con un padre fatalmente attratto dal mondo latino e una madre pagana, Heinrich dopo il suicidio del genitore percepirà come irrisolvibile la propria ambigua posizione storico-sociale; per riconoscersi infine nella condizione di essere umano sradicato, di ebreo assimilato, come egli stesso dirà con parole quasi profetiche: “In questo popolo che sta per diventare asiatico siamo gli ultimi europei, slegati da tutte le radici, da tutte le leggi, da tutte le tradizioni, svincolati da ogni valutazione, impassibili al cospetto di qualunque castigo, indifferenti nei confronti di qualsiasi compenso, senza rimorso né futuro”, p. 82.

Inoltre, Heinrich subirà un profondo trauma che ne impedirà la piena maturazione piscologica e sessuale, al punto che nel suo rapporto con Miriam affioreranno venature incestuose: “Esamino la vita che ho vissuto dopo la violenza subita [il suicidio del padre] e non rimpiango nulla. Non ho mai avuto un amico, mai una compagna né una donna perché a svolgere tutte queste funzioni ha provveduto mia sorella”, p. 75.

La famiglia Klopfer è una formidabile opera sull’identità e sull’appartenenza, o meglio sull’impossibilità da parte dell’uomo contemporaneo di identificarsi e di appartenere. La famiglia ha esaurito le proprie funzioni di difesa, riconoscimento e condivisione; una nuova orfanezza esistenziale sbaraglia ogni ipotesi di contiguità: “La guida che ci accomuna e ci unisce, l’amore che non è stato costruito sull’illusione, avevamo stabilito, è il frutto dello stesso sangue, degli stessi progenitori e di un passato vissuto assieme. Nessuno parli di uomo o donna, neppure della compagna e del proprio amico – la massima vicinanza risuonerà unicamente nella frase: «Ti voglio bene, sorella mia».

E con questo passo falso che ha già fatto precipitare nell’abisso la cultura dei Tolomei e dei faraoni loro antenati, nella barbarie della migrazione dei popoli e di tutte le sue conseguenze, con quell’orgoglio mal indirizzato e tutta la nostra saccenteria siamo approdati nella grande eclisse solare e al colossale sterminio deciso dall’età borghese e al quale, per caso o destino, siamo sopravvissuti malgrado avessimo fatto ben poco per meritarlo”, p. 79.

 

(pubblicato sulla rivista Squadernauti, numero unico, giugno 2019)

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