Tenacemente, disperatamente

Il 6 dicembre del 2015, per la prima volta nella mia vita, sono stato in un aeroporto dall’altra parte: cioè dalla parte di coloro che attendono l’arrivo dei passeggeri. L’aereo aveva un forte ritardo.

Quando (a uno a uno, con grande lentezza) i passeggeri sono infine usciti dalle porte scorrevoli, benché incolpevoli sono stati più o meno bonariamente rimproverati da chi era venuto ad accoglierli.

Perché?

Col passare del tempo, la cosa o la persona attesa diventa sempre meno importante, anzi: a poco a poco smette di essere vera.

A un certo punto ci si dimentica il motivo per cui si è dove si è, chi o cosa si stava attendendo.

Poi anche il luogo dell’attesa perde consistenza, si sfarina, svanisce.

Dopo di che viene portato l’ultimo attacco: quello a noi stessi. Finiamo per non sapere più chi siamo.

Se all’aeroporto tutti abbiamo, più o meno bonariamente, sgridato gli incolpevoli passeggeri, è stato perché – per quanto laboriosi sappiamo mostrarci – al nostro nucleo più autentico non interessa costruire, avanzare, sopravanzare, mettere a frutto competenze, intuizioni, astuzie.

In realtà siamo qui semplicemente per servire il ritmo dell’universo, per aderirvi.

Ecco allora che l’attimo in cui veniamo strappati a questo ritmo e ricollocati nel tempo umano (quando si aprono le porte scorrevoli e spuntano i passeggeri di un volo in ritardo; quando dobbiamo chiudere le pagine di un libro che stiamo amando) abbiamo un moto istintivo di rifiuto.

Ma dura, appunto, un attimo. L’attimo dopo stiamo di nuovo facendo qualcosa. Stiamo ridimostrando tenacemente, disperatamente, di essere vivi.

 

(pubblicato su Squadernauti il 18 dicembre 2015. Illustrazione originale di Alessandro Alloisio)

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