Sono cinque narrazioni in cui possibile e impossibile coabitano, generando un mondo nel quale decade il concetto di assurdo, né dunque può avere spazio lo stupore.
Nel primo racconto, Gli occhi degli altri, un uomo cerca di risolvere un accadimento: i fiori del suo giardino sono appunto dotati di occhi.
Ne L’inquilino, una famiglia cambia casa e si ritrova a dover convivere con una creatura mostruosa ed enorme. Che crea una serie di tragicomici problemi, compresa una bizzarra gelosia del padre nei confronti della propria moglie.
Carloncio delle serre è un uomo forzuto che lavora in condizioni di schiavitù, e che attirerà le attenzioni di un gruppo di ragazzi. Il loro interesse (affettuoso ma anche sadico) per Carloncio, individuo capace di sopportare qualunque deprivazione fisica e tortura, porterà a un finale tragico.
L’oceano è, oltre al titolo del quarto racconto, ciò che né più né meno il protagonista si ritrova nel proprio giardino. “Era un oceano magnifico, con tutto ciò che un oceano deve avere. Eppure molte persone si mostravano perplesse quando dicevo di avere un oceano in giardino. Ancora oggi non riesco a credere che esista gente dalla mentalità tanto rigida e limitata da non poter considerare un’affermazione del genere diversamente da un’iperbole o un modo di dire, quando non, addirittura, una facezia di dubbio gusto” (pp. 63-4).
E, come ogni oceano letterario che si rispetti, anche questo ha le sue imbarcazioni, i suoi capitani e le sue avventure, una delle quali coinvolgerà il protagonista medesimo.
Infine, in Racconto senza nome, Pierpaolo fa un mestiere davvero insolito: con un solo colpo di scalpello dato nel punto preciso di un edificio, è in grado di portare benefici ben più vasti di quelli circoscrivibili all’ambito edilizio. Ma anche, si scoprirà nella seconda parte della vicenda, sconvolgimenti di portata cosmica.
Giardini cannibali è un benefico esercizio di libertà di scrittura e di immaginazione. L’inverosimile, infatti, non è mai trattato con particolari riguardi. Non intervengono ironie o sarcasmi, eufemizzazioni o relativizzazioni, né si individuano piani metaforici o simbolici di cui lo stesso inverosimile si farebbe portavoce. Esso e lì, fa parte del mondo narrato da Verzina esattamente come tutto ciò che si è soliti riconoscere per vero.
La pacifica coabitazione di reale e irreale in Giardini cannibali, tuttavia, provoca una curiosa reazione di disagio nel lettore. I confini tra lecito e illecito, tra – nuovamente – possibile e impossibile, ci permettono ogni giorno di godere di un senso minimo di tranquillità esistenziale. Se essi vengono annullati, e ci viene presentata una realtà alternativa (e perfettamente funzionante), si ha come l’impressione che le nostre difese dall’altrove, dall’inconoscibile, non siano poi così invalicabili. Anche perché Verzina osa l’inosabile, collocando quell’altrove nell’ambiente considerato più intimo per chiunque: quello domestico.
Trattenendoci dalla tentazione di una lettura dell’opera come provocazione nei confronti dei meno avvezzi all’umana solidarietà e accoglienza, di certo possiamo affermare che Giardini cannibali – per vie personalissime e apprezzabili – svolge uno dei compiti peculiari della letteratura: quello di erodere le certezze e mostrare la cedevolezza di ogni presunta verità.
È quanto ricorda, nelle parole che chiudono il racconto, il possessore de L’oceano: “E non è forse un’illusione, o è forse una dannazione, la piena padronanza di se stessi, la piena conoscenza di se stessi?” (p. 100).
(pubblicato su Squadernauti il 26 gennaio 2022)