Blackwood, da più parti indicato come un maestro della letteratura del mistero, con I salici (pubblicato per la prima volta nel 1907) ha scritto un racconto considerato da H. P. Lovecraft come la più convincente narrazione breve di argomento soprannaturale della letteratura inglese.
La trama è esile: il narratore e il suo compagno di viaggio, uno svedese, affrontano un viaggio in canoa lungo il Danubio. Trascorrono la notte in un isolotto circondato da salici. Lì, a poco a poco, il paesaggio diventerà sempre più ostile, irriconoscibile, terrificante.
Dapprima, i due avvertono un progressivo allontanamento dalle umane coordinate, che affrontano con spirito avventuroso: “Entrammo in quella terra desolata quasi volando, e in meno di mezz’ora scomparvero dalla nostra vista le barche, le capanne di pescatori, i tetti rossi e qualsiasi segno di abitazione umana e di civiltà. Il senso di lontananza dal genere umano, il completo isolamento, il fascino di quel singolare mondo di salici, venti e acque istantaneamente ci colpirono entrambi come un incantesimo, tanto che notammo scherzosamente che avremmo dovuto possedere un tipo particolare di passaporto per essere ammessi in quella regione” (pp. 21-2).
L’ironia è qui manifestazione della certezza di un pronto ritorno da questo indecifrabile altrove.
Certezza che, con il passare del tempo, si sgretolerà sempre più, e il senso di estraneità che sprigiona dal paesaggio somiglierà sempre più da vicino a una condizione di prigionia senza scampo: “il Danubio si era fatto più serio. Aveva smesso di scherzare” (pp. 26-7).
I salici è un allucinato viaggio nell’inconoscibile, in ciò che resiste a ogni tentativo di interpretazione, che nella quotidianità viene sottostimato proprio per il suo carattere eccezionale e transitorio. E per la nostra tempestività (forse per mania classificatoria, o forse per spavento) nel leggere l’ignoto per mezzo del noto. Come se l’esistenza fosse pervasa da una luce che tutto rischiara e che a tutto dà senso.
Perciò il narratore, in questo viaggio sempre più angoscioso, in cui “non eravamo graditi. I salici erano contro di noi” (p. 41), accoglie con favore i segnali di umanità, di normalità, che sempre più di rado provengono dallo sbalestrato svedese: “Si rigirava sul materasso di sughero, dicendo che la tenda si stava muovendo e il livello del fiume era salito sopra quello dell’isola; ma ogni volta che uscivo a controllare, ritornavo con la notizia che tutto era normale; infine, divenne più calmo e si coricò in silenzio. Dopo un po’ il suo respiro si fece regolare e mi resi conto che stava russando – fu la prima e unica volta nella mia vita in cui il russare altrui mi riuscì gradito e rilassante” (pp. 92-3).
Il bisogno di far approdare il pensiero e i sensi su sponde rassicuranti è via via più impellente, in un ambiente dai contorni sempre meno plausibili, terrestri, amministrabili. Anche i consueti modi di trovare salvezza rischiano a un certo punto di essere inapplicabili, come ha modo di dire lo svedese: “«Non si tratta di una condizione fisica da cui potremmo liberarci dandoci alla fuga»” (p. 80).
Ne I salici è dunque la natura a farsi figura di ciò che travalica gli umani saperi. Suoni, ombre e aggressioni multisensoriali fanno smarrire ai due protagonisti ogni capacità di discernimento. Il narratore e lo svedese scelgono ora il sonno, come rifiuto del confronto con questa dimensione, ora l’elezione di sé a colpevoli e vittime sacrificali, per il desiderio inesauribile di rinvenire un senso, una logica.
Ma quel mondo, il mondo, continua a esistere secondo le proprie leggi, tra le quali non è compresa la necessità di mostrarsi coerente – né tanto meno confortevole – al cospetto degli esseri umani.
(pubblicato su Squadernauti il 26 ottobre 2022)