Pochissimo tradotto in Italia, Sait Faik è tuttavia considerato uno dei maggiori scrittori turchi del Novecento.
La sensazione è che finora la critica, almeno quella nella nostra lingua, abbia operato una troppo frettolosa sovrapposizione tra alcuni aspetti della biografia dell’autore e i motivi ultimi della sua opera.
Sait Faik Abasıyanık è stato un flâneur alcolizzato (morirà neppure quarantottenne di cirrosi epatica) e irresistibilmente attratto dagli ambienti più umili. Eppure non c’è mai, nelle sue pagine, alcun compiacimento per la propria condizione, per le proprie inclinazioni. Sait Faik non ha dunque nessuna intenzione di calarsi nel ruolo di scrittore maledetto, orgogliosamente ostile al conformismo e a un’esistenza per così dire confortevole.
Al contrario, i protagonisti di pressoché tutti i racconti che compongono Un uomo inutile – e che, lo ammettiamo, si è sempre tentati di identificare con Sait Faik Abasıyanık – hanno un bisogno estremo di rispecchiarsi negli altri, essere loro pari, condividere l’avventura dell’esistenza: “Ero ubriaco. Il tempo, le luci, la città mi inebriavano in un modo tutto particolare. La gente mi attraeva a sé, con la forza di una calamita. E io avrei voluto abbracciare il mondo e la città senza ipocrisia”, p. 29.
Altrove vengono meglio spiegati i confini di questa ipocrisia, che lo scrittore fa coincidere con la temperanza, con la necessità di dosare le emozioni per mantenerle entro un’intensità socialmente accettabile.
Ma Sait Faik non conosce altro amore che quello assoluto, e in questa dismisura si consuma il suo dramma: come possono essere accettati i sentimenti espressi nella loro pienezza, esibiti senza alcuna necessità (senza alcuna capacità) di fare previsioni o calcoli?
Questa incommensurabilità porta i personaggi che popolano le pagine di Un uomo inutile a un’esistenza isolata, votata all’autodistruzione.
“E in me sorge l’ambizione di diventare un uomo che ama molto, ma molto, gli uomini, e per loro vuole compiere grandi imprese. Percepisco la tensione del mio corpo, dei nervi. Sento, però, da una parte quanto il desiderio sia grande, e dall’altra quanto presto finiscano in frantumi queste mie aspirazioni”, p. 42.
Nel racconto forse più struggente della raccolta, Pioggia, il protagonista segue una giovane donna. Ritenendosi definitivamente escluso dalle relazioni, egli chiede (senza tuttavia pretendere) ciò che avrebbe dovuto essere l’eventuale esito di un accordo soddisfacente per entrambi. Perché, in fondo, le relazioni sono accordi: “«Non si volti. Ho solo bisogno di parlarle. Pensi a un uomo che ha bevuto un bel po’ di birra. Quell’uomo sente il bisogno di dire delle cose a una persona sconosciuta, ma incontrata all’improvviso, che trova straordinariamente bella. Tenga conto di questo e ascolti. Se si voltasse, se mi vedesse, proverebbe un senso di disgusto. Mi chiamerebbe scemo. Se vedesse i miei vestiti, la mia incerata sporca, il mio misero cappello mi riderebbe in faccia. Senza girarsi può dare un senso al mio volto. Può perfino farmi indossare un abito dello stile a lei più gradito […] »”, p. 62.
Ecco dunque che il desiderio, espulso dal mondo, può ancora nutrire l’immaginazione: “Mi sono lasciato prendere da una fantasia: osservando il volto di uno sconosciuto qualsiasi per strada, in una bottega, in un luogo affollato, è possibile imbastire una storia su un frammento della sua vita”, p. 75.
La fantasia, lei sì, è in grado di liberarsi dalla soggezione all’utile e ampliare all’infinito i propri orizzonti. E se allora vivere, confrontarsi, ravviva ogni volta il dolore dell’ipocrisia, nell’intimità del sogno si riesce a recuperare uno sguardo limpido, aperto sull’infinita chiarezza. E ci si può ricordare che “bisogna amare le persone non per quello che sono, ma per quello che sarebbero”, p. 125.
(pubblicato su Squadernauti l’11 giugno 2021)