addio.
Hai fatto schifo con una tale pervicacia che ho finito per volerti bene. Hai smesso di funzionare nel bel mezzo di chissà quanti allenamenti e pure in un paio di gare; il tuo segnale GPS aveva la solerzia di José Perdomo; il tuo design proiettava la grafica del Tetris in un futuro imperscrutabile; e i tuoi dati si sono scaricati correttamente una percentuale di volte paragonabile a quella in cui Charles Bukowski ha pasteggiato con succo di pompelmo.
Eppure. Eppure ci siamo sempre capiti, eri prevedibilmente cocciuto come me, e dopo ogni uscita ci guardavamo e ci sembrava impossibile avercela fatta un’altra volta, e ora che ti ho perduto per sempre, mio amato Polar M400, ho capito perché così tanti podisti non hanno saputo fare a meno di te, e chi non ha saputo fare a meno di te scommetto che non si è mai fatto un selfie dopo aver corso sei chilometri a 5’30”, e se così tanti podisti non hanno saputo fare a meno di te è perché tu hai rappresentato alla perfezione l’abisso elementare della corsa, andare da un punto all’altro gioendo-soffrendo, da soli, senza bisogno di fronzoli, anzi: col bisogno di non avere fronzoli, Polar M400, sei stato il massimo equipaggiamento possibile per chi corre per correre, tu bussola del disperso, tu amuleto del soldato, ti tengo sulla scrivania finché non capisco in quale bidone collocarti, ma non te la prendere, Polar M400, la raccolta differenziata è prosaica, nessuno ha mai pensato di creare un recipiente la cui decalcomania recitasse: “Oggetti di merda ma dal valore affettivo che levati”, l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica lo sappiamo tutti quante deve patirne, ti tengo sulla scrivania e ti guardo, guardami, ripetimi un’ultima volta che sto facendo i 400 a 5’50” perché sei ancora lì che segni il ritmo del recupero, idiota, amore.
(pubblicato su Facebook il 7 giugno 2021)