Si tratta, originariamente, di una raccolta di nove racconti; alla quale l’autore, proprio in occasione della nuova edizione italiana, ha deciso di aggiungere un decimo (e brevissimo) racconto finora inedito, scritto l’anno dell’edizione mondadoriana. A spiegarlo è lo stesso Leavitt nell’appassionata introduzione.
La sensazione, a leggere le nove narrazioni primitive, è quella di una tale unitarietà di temi e toni da rendere superfluo ogni accenno alle trame (peraltro esili) di ogni singolo racconto.
La suddivisione in testi autonomi, anzi, appare quasi pretestuosa, e l’opera si presenta piuttosto come una sorta di polittico le cui ante hanno sì ciascuna una propria cornice, ma non sono che parti funzionali alla rappresentazione complessiva.
Ballo di famiglia è il resoconto di situazioni intime che si svolgono negli Stati Uniti negli anni della prima presidenza di Ronald Reagan, dominati da quella quasi ossessiva ricerca del benessere esteriore che prende il nome di yuppismo.
Sono vicende occorse in famiglie nel senso ampio del termine: protagonisti sono soprattutto giovani adulti, ma compaiono anche i loro genitori (dei quali, spesso, si intravedono amanti ed ex coniugi) oltre a cugini, zii e amanti.
Il bisogno di riconoscersi in un’estensione (arbitraria e forzata) del proprio nucleo familiare somiglia a quello – quasi ineludibile in quegli anni per la upper middle class americana – di mostrarsi disinvolti e metamorfici nei rapporti interpersonali.
Tuttavia la famiglia, così come la società, non solo non assolve la funzione sperata di strumento di conferma e amplificazione delle proprie inclinazioni e ambizioni; al contrario, la cosiddetta famiglia allargata, nella sua artificiosità, finisce semmai per confermare e amplificare frustrazioni e fallimenti individuali.
Gli attriti fra i personaggi delle narrazioni riguardano spesso figure appartenenti a diverse generazioni. Un espediente utilizzato in più racconti è quello della reciproca sordità tra la madre, una donna di mezz’età, e il figlio o figlia, un adulto poco più che ventenne.
Ballo di famiglia è anche un formidabile campionario di crisi trattenute da parte dei genitori, ultimi ad abbandonare l’illusione dell’unità e continuità familiare.
Esternare il disagio equivarrebbe a porre in dubbio il senso della discendenza, il legame causale che dovrebbe innervarla. Allora, sovente, le madri ricorrono all’autocommiserazione o alla tenue minaccia, come per rimandare ad altro tempo il confronto col significato ultimo della famiglia.
Qui a parlare è Lydia, madre di Ellen: “«Non me lo merito» dice. «Non hai idea di cosa sia tentare di tenere sotto controllo il casino di questa casa. Non hai il diritto di prendermi in giro quando l’unica cosa che faccio è cercare di evitare che i piatti e i vestiti sporchi ci sommergano»”, p. 78.
In quasi tutti i racconti, almeno uno degli appartenenti alla generazione dei figli è omosessuale. E l’omosessualità è adoperata con sapienza da Leavitt per esprimere l’incolmabile distanza tra due generazioni. Anche i genitori apparentemente meno retrivi (come la signora Campbell, madre di Neil nel racconto che apre la raccolta, Territorio) si mostrano incapaci di accettare un orientamento sessuale per loro insolito.
Dopo una serata al cinema con Neil e il di lui compagno, così la signora Campbell parlerà al figlio: “«Ripenso a quando eri un bambino» dice. «Ci penso e devo smettere di pensarci. Volevo che crescessi felice. E sono molto tollerante, molto comprensiva. Però c’è un limite a quello che riesco a sopportare»”, p. 41.
A parlare è nuovamente un adulto irrisolto, desideroso che il figlio corrisponda alle proprie attese, e che non sia un elemento dissonante con la propria idea di mondo.
I continui dialoghi tra i personaggi – infantili, ansiosi, egoisti – mostrano al lettore i prototipi di una società simile a un’illusione ottica collettiva: perché fondata non solo sulla menzogna, ma pure sul tacito e reciproco patto di non disvelarne mai apertamente il carattere fittizio.
E così le pulsioni si diluiscono in promesse, ricatti, gelosie, narcisismi. Il controllo emotivo riprende il sopravvento anche dopo che un gesto rompe il protocollo: e se un attore esce per un attimo dal proprio ruolo, sarà un altro a ricomporre subito la scena.
Come se l’angoscia procurata dalla propria insensatezza fosse sempre e comunque più accettabile della fuga dalla forma, che imporrebbe di affrontare da soli l’imprevedibilità della vita:
“Una sera a cena, pochi giorni prima delle vacanze di primavera, Elaine si alzò e disse: «È tutta una finzione». Poi tornò a sedersi e riprese a mangiare. Allen la guardò, guardò Danny, guardò il suo piatto. Qualche sera dopo la madre prese il coperchio di una zuccheriera di ceramica che Danny le aveva fatto per Natale e lo lanciò ad Allen con un ampio gesto del braccio. Il coperchio lo mancò e andò a sbattere contro lo sportello del frigorifero. Danny fece un balzo e ricacciò indietro le lacrime.
«Hai visto cosa sono capace di fare?» disse Elaine. «Hai visto a che punto mi hai fatto arrivare?»
Allen non rispose. Si infilò tranquillamente la giacca e senza una parola uscì dalla porta sul retro. La sera dopo non tornò per cena”, p. 116.
(pubblicato su Squadernauti il 29 aprile 2021)