Ogni tanto, quando mi guardo allo specchio o mi tocco il lobo sinistro, mi ricordo di avere ancora l’orecchino.
Mi sembra una cosa struggente e bellissima, l’ultimo grumo di gioventù che se ne sta lì, fieramente anacronistico, spavaldamente impassibile, addosso a un signore che invecchia.
Avevo sedici anni, avevamo guardato “Christiane F.” chissà più in casa di chi, c’eravamo fatti tutti un tatuaggio con aghi e china – il mio, il simbolo zodiacale del toro, si intravede ancora – e io e qualcun altro il giorno stesso avevamo aggiunto il buco all’orecchio. Ci sentivamo tremendi e liberi. E lo eravamo. Tremendi. Liberi. Sì.
A distanza di trent’anni dovrei forse aggiungere “immaturi”, ma mi sembra più corretto dire che allora eravamo al punto giusto di maturazione: dei ragazzi tremendi e liberi che non capivano un cazzo del mondo ma avevano la sensazione precisa che avrebbero potuto cambiarlo non appena avessero voluto. Se solo il vino e l’erba fossero stati meno buoni, se solo lo stare buttati l’uno sull’altro a suonare la chitarra e a cantare non ci fosse sembrato così perfetto.
Ora a che grado di maturazione sono arrivato? Ora mi sembra di stare benone, di essere più consapevole ed equilibrato di allora – e ci mancherebbe altro – ma anche più calmo e pacificato, più felice e più generoso. E sempre più d’accordo con Elena che quella volta mi disse: “Dopo la giovinezza siamo morti”.
(pubblicato su Facebook il 18 marzo 2021)