Le lettere, pubblicate in questo volume per la prima volta, testimoniano un rapporto sempre più affettuoso: già nel quarto testo avviene il passaggio dal lei al tu, e da allora il poeta si rivolgerà esplicitamente alla donna come alla persona amata.
I due si erano conosciuti alle Giubbe rosse, storico caffè letterario fiorentino, e si sarebbero rincontrati nella primavera del 1962, in occasione di un viaggio del poeta in Grecia.
Quella trasferta è importante per due motivi. Intanto perché Montale ne trarrà alcune prose giornalistiche che faranno poi parte della raccolta di scritti di viaggio Fuori di casa e soprattutto la poesia Botta e Risposta III, dedicata alla Dalmati. Inoltre, proprio a seguito del soggiorno in Grecia il carteggio si infittirà (basti pensare che venticinque delle quarantadue lettere sono state scritte nel medesimo anno del viaggio).
Al di là delle suggestioni che confluiranno nelle prose, e nella poesia pubblicata in Satura, lo scambio epistolare non offre alla conoscenza del lettore grossi elementi di novità sull’universo culturale e letterario montaliano. Tanto frequenti quanto superficiali sono infatti sia le evocazioni di poeti e scrittori contemporanei, specie italiani e greci – tra i quali Seferis e Kavafis (quest’ultimo tradotto da Montale) – che le autocitazioni, ora in odore di civetteria ora, anzi più spesso, accompagnate da una divina indifferenza.
Altrettanto puntuali i riferimenti alla propria pittura (svariati sono i quadri che Montale spedirà in dono alla Dalmati), al proprio stato di salute, alla propria attività giornalistica e alla propria vita familiare, con diversi cenni all’inseparabile governante Gina e momenti di dolcezza riservati a Mosca, ossia alla moglie Drusilla Tanzi. E del rapporto con lei non si perita certo, il poeta, di rivelare dettagli anche decisamente intimi.
A colpire in Divinità in incognito è proprio l’estrema confidenza che lega Montale a Margherita Dalmati, in virtù della quale egli mostra senza riserve la propria natura più autentica, scabra e riservata. Largheggiano ironia e autoironia, che sono in fondo le basi su cui poggia la seconda stagione della poesia montaliana, non a caso pressoché corrispondente all’arco temporale di questo epistolario. Nella lettera del 30 settembre 1969 leggiamo ad esempio: “Non salgo né scendo le scale se non c’è qualcuno che mi stia vicino. Quando vado al Quirinale dove le scale sono immense e senza corrimano io mi accosto a un gruppo di parlamentari in arrivo esclamando: Presidente Eccellenza ecc. Uno di questi, lusingatissimo, mi prende sottobraccio e così la salita è facile”, p. 100, lettera del 30 settembre 1969.
Il tono è spesso dimesso quando non sconsolato; la scrittura a tratti non è nemmeno troppo sorvegliata. I due elementi potrebbero trarre in inganno, istigando a derubricare questo materiale come scarsamente importante per l’intelligenza dell’autore. Che chiude l’ultima missiva, scritta a settantasette anni, con le seguenti parole (maiuscole nel testo): “Voglio dirti semplicemente una cosa. Ed è che TI AMO e che penso a te con infinita tenerezza. Mandami una tua fotografia: ne ho già una ma ne vorrei due.
Ti abbraccio e bacio fin la punta dei tuoi piedi.
Il tuo
Agenore” (p. 104, lettera del 12 gennaio 1974).
L’insolita firma, spesso adoperata da Montale in questa corrispondenza, ci riporta al mitico re fenicio di Tiro citato da Erodoto. E potrebbe indurre a pensare che per il poeta la vita fosse subordinata alle esigenze della letteratura, o che l’una e l’altra fossero coincidenti e dunque interscambiabili. In questa direzione andrebbe l’uso, con Margherita Dalmati, della medesima aggettivazione adoperata nella corrispondenza con Irma Brandeis, la celebre Clizia.
Oppure questa ripetitività semantica, assieme alla già citata assenza di controllo (sia formale che emotivo), potrebbe conferire alle lettere qui raccolte un eccezionale valore di verità. Di offerta assoluta di sé all’amata, senza alcun pudore di palesare le proprie manie, le proprie ossessioni, le proprie fragilità.
E magari proprio l’estrema onestà, qualunque sia il rischio a cui ci si espone esibendola, potrebbe valere come sinonimo di dignità. Nell’affrontare sia la vita che la poesia: “Io le piume non le ho mai avute e la mia poesia, anche se forse brutta, dimostra una dignità umana che gli altri italiani del mio tempo non hanno mai mostrata”, p. 54, lettera del 6 giugno 1962.
(pubblicato su Squadernauti il 2 febbraio 2021)