Storie di gente felice

Iperborea nel luglio del 2020 ha pubblicato (traduzione di Carmen Giorgetti Cima, postfazione di Ingrid Basso) Storie di gente felice di Lars Gustafsson: si tratta di dieci racconti usciti in Svezia nel 1981 e finora inediti in Italia.Si tratta, per meglio dire, di dieci ricognizioni sul limite tra realtà e immaginazione, tra vero e plausibile, e sull’umana inclinazione a fluttuare di continuo da un versante all’altro del confine, per l’incapacità di adeguarsi al mero succedersi degli eventi ma anche di consegnarsi definitivamente alla dimensione fantastica.

In Zio Sven e la rivoluzione culturale un ricercatore, in Cina ai tempi della Rivoluzione culturale, si trova a fantasticare sul pensiero del presidente Mao, semplificandolo per l’urgenza di rinvenire un inedito punto di vista da cui interpretare il mondo e prefigurarne inediti sviluppi; ma una volta rientrato in patria è nuovamente costretto ad affrontare l’univocità della storia e quella della propria biografia.

Ne Le quattro ferrovie di Iserlohn assistiamo a una serie di incontri che paiono più ipotetici che autentici, vista l’intimità che lega tra loro personaggi fino a pochi istanti prima sconosciuti gli uni agli altri; e l’ossessione della protagonista femminile per i tragitti dei treni giocattolo può essere metafora dell’attrazione suscitata dall’imprevedibilità della vita o dalla multiformità, potenzialmente infinita, della letteratura.

Un’affermazione informa di sé il racconto L’arte di sopravvivere a novembre e forse l’intera opera: “Nessuno sa che cosa sia un essere umano”, p. 54. Le figure che popolano Storie di gente felice sono infatti assai dotte e inclini alle sofisticazioni intellettuali (attitudine che coincide col più vistoso difetto del libro: ciò che l’autore intende esprimere non viene sempre declinato nell’azione ma talvolta, in modo un poco stucchevole, è esplicitato per bocca appunto dei personaggi): eppure i numerosi ragionamenti e dialoghi sulla rappresentazione e sulla mistificazione della realtà appaiono essi stessi come circolari e autoriferiti, incapaci di tramutarsi in gesti incisivi o quanto meno in progettualità solide.

Citiamo poi due racconti nei quali i protagonisti sembrano essere privi di ciò che comunemente si intende per sanità mentale. Ne La Grandezza colpisce dove vuole, il reale appare costantemente minaccioso a causa della mancanza di strumenti per leggerlo e dunque per riconoscerlo: “Non aveva parole per il mondo, e gli uccelli che si alzavano di colpo in volo erano uno dei mille modi in cui il mondo poteva diventare inaffidabile” (p. 149, corsivo nel testo). Al contrario, ne L’uccello nel petto la propria distanza psicologica dalla realtà viene reinterpretata in chiave difensiva, come estraneità rispetto a ciò che accade: “Non era nella sua vita che succedeva”, p. 180.

Non c’è speculazione, pare dirci Gustafsson, capace di raggiungere e mostrare il nucleo duro dell’universo, della vita; accumulare nozioni non fa che moltiplicare le possibili interpretazioni di qualcosa destinato comunque a rimanere lontano da noi, incommensurabile alle nostre potenzialità. Allora, forse, l’unico atteggiamento davvero plausibile è espresso dal protagonista di Un racconto d’acqua, che intuisce come il mondo vada semplicemente accolto nella sua illeggibilità, nella sua equidistanza da qualunque tentativo di costringerlo in una formula o di intenderlo come una concatenazione di avvenimenti legati tra loro dal principio di causalità. Il mondo, insomma, non coincide col senso: “Pensi, se fosse proprio un simile vuoto la verità sul mondo? Prenda per esempio questo lago. Certi giorni quando sono giù di morale ho l’abitudine di scendere sulla riva. I blocchi di roccia se ne stanno là fuori, enormi e pesanti, ognuno come un’asserzione che non si lascia confutare – e in momenti del genere vedo che il lago è sempre stato triste. Il mondo naturale è così. Siamo solo noi che cerchiamo di creare un senso”, p. 169.

 

(pubblicato su Squadernauti il 23 ottobre 2020)

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