La strada di casa

Forse, come scrive il bravo traduttore Fabio Cremonesi nella nota finale, La strada di casa di Kent Haruf (uscito per NN Editore nel giugno del 2020) è anche un libro sulla giustizia, o meglio sulla distanza tra la giustizia legale e quella morale.

Ma il romanzo, così come le altre opere di questo straordinario narratore statunitense (qui e qui le nostre recensioni ad altri due suoi volumi), pare piuttosto un’ulteriore riflessione dolente sulle peculiarità e i limiti della natura umana. Nella vicenda si incrociano la biografia del narratore, Pat Arbuckle, e quella di Jack Burdette, legati da antica amicizia. Ma se Arbuckle, direttore dell’Holt Mercury (perché è nuovamente nella contea di Holt che si svolgono i fatti), è uomo mite e generoso, Burdette sin dalla giovinezza si dimostrerà riottoso a ogni disciplina, narcisista, prepotente, sordo a qualunque ragione che non sia quella dei suoi impulsi, e indifferente a qualunque azione o progetto che non contempli il soddisfacimento di un qualche suo interesse.

La storia inizia col ritorno di Jack Burdette ad Holt, siamo nel novembre del 1985, e prosegue con una lunga retrospettiva sulla sua vita: l’infanzia e l’adolescenza (tra amori e bravate), l’elezione a direttore dei silos della cooperativa degli agricoltori, una serie di peripezie che lo porteranno a fidanzarsi con Wanda Jo, a sposare Jessie e successivamente lo costringeranno a lasciare Holt.

Proprio la bella e tenace Jessie fungerà da punto di contatto tra il narratore e Burdette, e sarà in qualche modo la causa del sorprendente finale, che coincide temporalmente con le pagine iniziali, e cioè con l’inopinata presenza di Burdette a Holt dopo otto anni di assenza del tutto simili a una fuga.

Nulla si dirà della trama, per una volta lontana dagli stilemi di Haruf poiché piuttosto ricca di accadimenti e culminante in un colpo di scena. Ciò che ancora una volta sorprende è la capacità dell’autore di indagare l’animo umano non attraverso l’analisi pedissequa delle caratteristiche psicologiche né esibendo il loro declinarsi in azioni e reazioni; Kent Haruf anziché il pieno mostra al lettore il vuoto che informa di sé le personalità e di conseguenza i rapporti, ossia la quota di illeggibilità (agli occhi altrui ma anche agli stessi propri) che dà vita all’imprevedibile, all’incalcolabile, che mette in scacco ogni ipotesi di causalità.

È in questo senso emblematica l’oscura e vividissima figura di Jack Burdette, che non si muove seguendo alcuna traiettoria esistenziale, bensì dominato dal puro istinto.

Ed emblematico è anche lo stile di Haruf, il suo ritmo incline all’indugio, in una sorta di sintonia misericordiosa con i suoi personaggi, consapevoli dell’impossibile coincidenza tra aspettative e destino, dunque pervasi da un fatalismo che li induce a concentrarsi soltanto sul tempo presente, dilatato dallo scrittore quanto più possibile, come per celebrare l’unica verità di cui si dispone:
“Guardammo verso il biliardo, dov’era Jack. Stava raccontando un’altra barzelletta o raccontando per l’ennesima volta una delle sue storie, e gli uomini intorno a lui aspettavano la battuta. Pendevano dalle sue labbra. Un bar e un pubblico maschile: Jack era nel suo elemento.
Wanda Jo tornò a guardare dalla mia parte e prese ad avvolgersi una cannuccia tra le dita.
Ieri ho visto tua moglie e la tua bambina in Main Street, disse.
Ah, sì?
Sì. Ridimmi come si chiama tua figlia.
Toni.
Toni. Quanto è carina. E aveva un vestitino graziosissimo. Avrei voluto abbracciarla.
Perlomeno ha preso un po’ della bellezza di sua madre. Ma è testarda come un mulo. Magari potresti passare a darci una mano all’ora del sonnellino.
Mi farebbe piacere. Basta che me lo diciate. Era seria. Comunque secondo me siete fortunati.
Dici? Non so, risposi. Perché non mi pareva di essere fortunato. Non per il matrimonio, in ogni caso. Ma di sicuro Wanda Jo voleva dire che ero fortunato a essere padre. Su questo ero d’accordo con lei. Perlomeno a quei tempi lo ero. Toni era ciò che teneva insieme me e Nora.
Spero di avere anch’io dei bambini, osservò Wanda Jo.
Davvero? Le chiesi.
Non pensi che sarei una buona madre?
Ma certo.
Io penso di sì. Solo che si sta facendo tardi. A volte vorrei solo che Jack si sbrigasse a decidersi. Dice che lo farà, ma poi continua a rimandare.
Mi pare tipico suo.
Sai che l’estate scorsa stavamo per sposarci?
No.
Avevo già comprato l’abito e fatto stampare gli inviti. Poi però Jack ha deciso che non era ancora pronto.
Immagino che non lo fosse”, pp. 73-4.

 

(pubblicato su Squadernauti il 9 settembre 2020)

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