Genesi 3.0

In una palazzina ai margini di un bosco vivono due uomini: il più anziano, soprannominato il Polacco, ha “almeno cinquant’anni, però ne dimostra una ventina di meno” (p. 13) ed è un eroico ex combattente della Luminosa Guerra. Durante la quale ha salvato decine di bambini intrappolati sotto le macerie, tra cui Simon, io narrante e protagonista di Genesi 3.0, ultimo romanzo di Angelo Calvisi, uscito nel febbraio del 2019 per Neo Edizioni.

Simon è un giovane che oltre ad abitare col Polacco ne subisce minacce e soverchierie; lavora duramente (benché di malavoglia), e ha per unico svago un rapporto stricto sensu con la gallina Mitropa. Finché un giorno un gruppo di militari preleva il Polacco, che nella veste di Grande Urbanista dovrà trasferirsi nella Capitale. Egli porterà con sé Simon, – “«[…] Cosa credi, che ti lascio qui da solo a far danni?»”, (p. 37) – e per il ragazzo spostarsi significherà precipitare in un incubo che pare tolto da una novella di Kafka o da un’opera pittorica di Otto Dix. Simon avrà a che fare con un potere insensatamente coercitivo, al quale cooperano un braccio militare, uno ecclesiastico-ospedaliero e una burocrazia tanto illogica quanto oppressiva.

Preferiamo non svelare altro di questa storia felicemente caotica, che procede come a scotomi, con salti o addensamenti temporali, tenendo costantemente sotto scacco il principio di causalità, e con esso il desiderio del lettore di governare la trama.

Conviene piuttosto concentrarci sui due aspetti più notevoli di un romanzo che si è tentati di leggere come satira del potere. E proprio il potere è appunto il primo dei due motivi forti del testo: potere inteso anzitutto come conculcazione delle libertà individuali per opera dell’oscuro regime che signoreggia sulla Capitale. Qui Calvisi indovina una formula inedita e disturbante, dando corpo – è proprio il caso di dire – alle metafore: rendere monchi dei diritti fondamentali, ad esempio, si declina in Genesi 3.0 nella mutilazione fisica degli individui per mano di sadici infermieri.

Ma il potere non agisce solo in direzione verticale. Ogni rapporto sembra basarsi sulla violenza o almeno sulla profonda incomprensione: lo stesso Simon, vittima degli insulti e delle angherie del Polacco, si rivale sulla povera Mitropa o su Miriam, la sua compagna, con gesti ora di sprezzante disinteresse ora di assoluto egoismo; è un maschilismo, il suo, ancora più becero poiché si capovolge in timore reverenziale nei confronti di figure femminili compiute (quali suor Perséguita o la misteriosa Madre).

Il potere è insomma l’unico codice comunicativo tra i personaggi, tutti destituiti – ecco il secondo motivo fondante di Genesi 3.0 – di una solida identità su cui fondare una traiettoria esistenziale univoca. Simon arriva addirittura a essere incerto sulla propria età (alla domanda su quanti anni abbia risponde: “«Ventidue, mi sembra»”, (p. 25); ma quando l’identica domanda gli verrà posta nelle pagine conclusive del romanzo, dirà: “«Quaranta», azzardo io”, (p. 135).

Lo stesso Polacco, dal glorioso passato, nel suo nuovo ruolo di Grande Urbanista agirà in modo decisamente meno eroico: a Simon curioso di conoscere il suo compito nella Capitale, egli spiegherà di dover costruire muri “«Di ogni tipo. Per difendere i Palazzi degli Industriali. E anche attorno ai quartieri, per non fare allontanare la gente dalle case»”, (p. 37).

Da personalità così incerte e mutevoli non possono che nascere rapporti instabili, contradditori: tra Simon e il Polacco c’è un esplicito odio reciproco, ma verso il finale il giovane affermerà che “Il Polacco mi ha voluto bene come a un figlio” (p. 136).

La mancanza di un’unica e coerente prospettiva da cui interpretare il mondo, oltre naturalmente a essere il terreno di coltura ideale proprio del potere, ingenera due conseguenze nefaste, una di carattere privato e una pubblico.

Quella di carattere privato è una lettura soggettiva della realtà, che si rispecchia forse nella composizione stessa dell’opera, per cui il lettore fatica a distinguere tra ciò che accade realmente e ciò che è immaginato, sognato o ricordato. La caduta del diaframma tra vero e plausibile dà modo a Calvisi di mostrare la sua inclinazione al registro comico: il romanzo, per prendere solo un esempio, è disseminato di riferimenti a un curioso erbario fantastico.

Sul piano pubblico, le individualità friabili conducono facilmente a ubriacature collettive, all’elezione estemporanea – con motivazioni del tutto fortuite – di leader cui votarsi fideisticamente (basti pensare che gli stessi Simon e Miriam saranno, loro malgrado, investiti di simili attenzioni).

Genesi 3.0 potrebbe allora essere letto come un’allegoria dell’epoca contemporanea, dominata dal narcisismo, dal disimpegno, dall’incapacità di ascolto e di accoglienza, di concentrazione, di costruzione di una propria idea di mondo.

E nemmeno il finale, pur non privo di speranza, – dall’unione tra Simon e Miriam dovrebbe nascere un individuo capace di condurre a una qualche palingenesi – evade dall’abnorme, dall’assurdo: basti pensare al fatto che Simon ignora i motivi dell’identificazione del nascituro a redentore (“Sui quotidiani c’è scritto che il lieto evento è previsto per l’ultima settimana dell’anno e il Figlio è designato da tutti i commentatori come colui che guiderà la Repubblica verso nuovi e più entusiasmanti orizzonti.
Non so da dove piovano queste certezze”, p. 151).

Anche la nostra futura salvezza, sembra dirci Calvisi, se mai ci sarà avrà i medesimi contorni grotteschi della nostra attuale perdizione.

 

(pubblicato su Squadernauti il 7 maggio 2020)

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