L’uomo, terrorizzato dalla morte, adotta da sempre gli stratagemmi che può: inventa, antropomorfizza e prega la divinità; nega il mistero del mondo o cerca di ridurlo a oggetto di conoscenza; si affanna a soddisfare in ogni gesto quello che Stig Dagerman chiamava il nostro bisogno di consolazione.
Ricordo che nei primi anni Novanta del Novecento la collana Millelire dell’editore Stampa Alternativa vendette in una quantità abnorme di copie la Lettera sulla felicità di Epicuro, che in poche pagine avrebbe dovuto risolvere proprio il problema della morte. Era un testo involontariamente comico, specie se paragonato ad altre opere sull’argomento (penso soprattutto al saggio La morte di Vladimir Jankélévitch).
Non sto divagando. L’umana attitudine a schivare i confronti pericolosi porta un’ampia percentuale di podisti a correre non per ingaggiare un corpo a corpo con i propri limiti ma per… farsi un selfie addentando la medaglia a fine gara, condividere l’immagine sui social e aggiungere la desolante didascalia: “Portata a casa anche questa!”
D’accordo: loro hanno paura di osare. Invece noi? Noi che correndo fatichiamo, ci esponiamo a rinunce, incomprensioni, fallimenti? A chi ci stiamo rivolgendo, quando ad esempio ci impegniamo per dodici settimane al solo scopo di migliorarci di qualche secondo nella successiva maratona?
Facciamo due ipotesi: dopo quelle dodici settimane riusciamo a migliorarci; oppure non riusciamo.
Cosa cambia? A partire dall’attimo in cui tagliamo il traguardo avremo un altro limite da superare. Che, in caso di miglioramento del nostro pb, sarà un limite nuovo e – come direbbero i giornalisti sportivi – più sfidante; in caso contrario sarà sempre il nostro vecchio limite.
Passeranno gli anni, allenamenti e gare si saranno susseguiti, e a un certo punto ci accorgeremo di avere speso una cospicua parte delle nostre energie nell’oltrepassare – a volte riuscendo, altre volte no – limiti imposti arbitrariamente da noi stessi. Limiti che, ascoltate bene, erano superabili.
Allora anche chi corre con la massima dedizione non affronta mai l’inaffrontabile, ovvero l’unico Limite che nessuno di noi, per quanto atleticamente equipaggiato, riuscirà mai a superare.
E così, eccoci fianco a fianco con i podisti che si fanno il selfie mentre addentano la medaglia, noi come loro destinati a sgambare all’interno degli umani limiti.
Eh, direte voi: ma la differenza la fanno le intenzioni. Provarci o meno. Fatti non foste a viver come bruti.
Eppure, correndo liberiamo il nostro nucleo più istintivo, dismettiamo ogni ruolo sociale per tornare animali tra gli animali. Ebbene: non mi risulta che nessun animale si sia mai preoccupato di sfidare i propri limiti. Tutti gli animali si limitano a vivere.
Forse, allora, correre non dovrebbe essere altro che un gesto naturale. Dovrebbe equivalere a vivere: né più, né meno. Il resto, che sia il selfie addentando la medaglia o l’ossessivo inseguimento del proprio pb, fa parte delle costruzioni umane, delle nostre innumerevoli (e tutte ugualmente inefficaci) formule contro il terrore del Limite.
Ricordo che nei primi anni Novanta del Novecento la collana Millelire dell’editore Stampa Alternativa vendette in una quantità abnorme di copie la Lettera sulla felicità di Epicuro, che in poche pagine avrebbe dovuto risolvere proprio il problema della morte. Era un testo involontariamente comico, specie se paragonato ad altre opere sull’argomento (penso soprattutto al saggio La morte di Vladimir Jankélévitch).
Non sto divagando. L’umana attitudine a schivare i confronti pericolosi porta un’ampia percentuale di podisti a correre non per ingaggiare un corpo a corpo con i propri limiti ma per… farsi un selfie addentando la medaglia a fine gara, condividere l’immagine sui social e aggiungere la desolante didascalia: “Portata a casa anche questa!”
D’accordo: loro hanno paura di osare. Invece noi? Noi che correndo fatichiamo, ci esponiamo a rinunce, incomprensioni, fallimenti? A chi ci stiamo rivolgendo, quando ad esempio ci impegniamo per dodici settimane al solo scopo di migliorarci di qualche secondo nella successiva maratona?
Facciamo due ipotesi: dopo quelle dodici settimane riusciamo a migliorarci; oppure non riusciamo.
Cosa cambia? A partire dall’attimo in cui tagliamo il traguardo avremo un altro limite da superare. Che, in caso di miglioramento del nostro pb, sarà un limite nuovo e – come direbbero i giornalisti sportivi – più sfidante; in caso contrario sarà sempre il nostro vecchio limite.
Passeranno gli anni, allenamenti e gare si saranno susseguiti, e a un certo punto ci accorgeremo di avere speso una cospicua parte delle nostre energie nell’oltrepassare – a volte riuscendo, altre volte no – limiti imposti arbitrariamente da noi stessi. Limiti che, ascoltate bene, erano superabili.
Allora anche chi corre con la massima dedizione non affronta mai l’inaffrontabile, ovvero l’unico Limite che nessuno di noi, per quanto atleticamente equipaggiato, riuscirà mai a superare.
E così, eccoci fianco a fianco con i podisti che si fanno il selfie mentre addentano la medaglia, noi come loro destinati a sgambare all’interno degli umani limiti.
Eh, direte voi: ma la differenza la fanno le intenzioni. Provarci o meno. Fatti non foste a viver come bruti.
Eppure, correndo liberiamo il nostro nucleo più istintivo, dismettiamo ogni ruolo sociale per tornare animali tra gli animali. Ebbene: non mi risulta che nessun animale si sia mai preoccupato di sfidare i propri limiti. Tutti gli animali si limitano a vivere.
Forse, allora, correre non dovrebbe essere altro che un gesto naturale. Dovrebbe equivalere a vivere: né più, né meno. Il resto, che sia il selfie addentando la medaglia o l’ossessivo inseguimento del proprio pb, fa parte delle costruzioni umane, delle nostre innumerevoli (e tutte ugualmente inefficaci) formule contro il terrore del Limite.
(pubblicato su Repubblica il 6 marzo 2020)