Dopo quella curva Enrico è morto.
Era la nostra quarta maratona, che come le altre avevamo preparato assieme. A ogni allenamento e gara, ormai da cinque anni, ci si stupiva dei passi quasi identici: perciò era così bello correre con lui.
Non avevamo mai raggiunto quel picco di forma. Ci eravamo giurati che se uno dei due avesse rallentato o mollato, l’altro non solo non avrebbe dovuto attenderlo e spronarlo, ma si sarebbe preso l’impegno di proseguire con più lena, tagliare il traguardo per entrambi. Sono quelle promesse un po’ melodrammatiche che scappano per via del sovrappiù di endorfine.
Avevamo iniziato a correre per gioco. L’idea era venuta a Barbara alla cena del nostro quarantesimo: essendo io più vecchio di Enrico di dieci giorni, è dal Liceo che festeggiamo assieme i nostri compleanni, prima con sbronze clamorose, poi con cene al ristorante, infine – da quando ci sono i bambini – in una delle due case. Enrico soffriva di una lieve ipertensione e io stavo accumulando grasso sui fianchi; dopo le solite lamentazioni su come non si riuscisse più a mangiare e a bere come da giovani, Barbara, la moglie di Enrico, ci aveva raccontato di un suo collega che da quando si era messo a correre era diventato un figurino, sempre allegro, chiacchierone, propositivo.
Che ridere i primi allenamenti, io con dolori dappertutto ed Enrico senza fiato dopo cinquecento metri, non lo avevo mai sentito bestemmiare in dialetto, mi ha poi confidato sotto la doccia che gli viene così quando prova un disagio fisico, e io che pensavo di conoscere tutto di lui…
Ed eccoci, dopo cinque anni di allenamenti e gare, alla maratona più importante, dove avremo finalmente puntato a scendere sotto le tre ore e trenta minuti. Avevamo impostato il ritmo tra i 4’55” e i 4’56” al chilometro, per essere sicuri che – se ci si fosse ritrovati (e ci si ritrovava sempre) a correre tre-quattrocento metri in più per lo zigzag – avremmo comunque raggiunto l’obiettivo.
Raggiungere l’obiettivo: quante volte, davanti a un bicchiere di vino, abbiamo preso le distanze da questo lessico idiota, specchio della nostra società meritocratica, noi dinosauri di estrema sinistra, che aggredivamo più o meno scherzosamente chiunque ci chiamasse imprenditori solo perché Enrico gestiva il calzaturificio di famiglia e io avevo aperto un agriturismo. Ma la corsa era la nostra zona franca, in cui accettavamo anche le locuzioni idiote e le promesse melodrammatiche.
Comunque. Al venticinquesimo chilometro stavamo ancora benissimo, la gioia di sentirsi leggeri mi aveva restituito una logorrea che Enrico, fin da ragazzi più saggio di me, teneva a bada implorandomi di conservare le energie. Eppure io gli vedevo il sorriso, che sapevo identico al mio, di chi sente che ce la sta facendo, che ce la farà. Il trentesimo, e lo spauracchio che porta con sé, sono filati via lisci, e poi un chilometro dietro l’altro, un mio minimo cedimento al trentaseiesimo, corso in 5’01”, ma il successivo a 4’54” mi ha rincuorato e dato la forza di spingere ancora, adesso che fatica però, e il lungo rettilineo del trentottesimo, e in fondo al lungo rettilineo la curva a gomito a destra, e dopo quella curva Enrico è morto.
Si è accasciato di colpo a terra, io ho pensato a uno scherzo, andavamo così bene, Enrico, andavamo così bene che mi sono ritrovato a proseguire come se niente fosse accaduto, mi sono ritrovato a correre lontano da lì, il gps diceva 4’50”, poi 4’45”, l’adrenalina, Enrico, la maledetta adrenalina, ricordati la promessa che ci siamo fatti, e trentanove, e quaranta, gli ultimi due li ho corsi sopra i 5’00” per colpa di quell’accelerazione inopinata, e ogni tanto mi voltavo indietro ma tu non c’eri, cazzo, dov’eri?, e il gonfiabile del traguardo, e gli ultimi metri, e il tempo, Enrico, il tempo, 3h28’53”, che soddisfazione, che angoscia, mi sono ritrovato a correre lontano da lì, lontano dal mio migliore amico che si è accasciato di colpo a terra, ma non è vero che se mi fossi fermato ti avrei potuto salvare la vita, non ho la minima nozione di primo soccorso, sei stato tu, Enrico, ad aver partecipato al corso quell’inverno, perdonami, e anche tu, Barbara, mi basta mia moglie che continua a chiedermi perché ho fatto quello che ho fatto e che da quel giorno rifiuta il mio corpo, mi rimprovera di essere andato ad allenarmi anche il giorno del funerale, eppure questo mio corpo che nessuno più tocca, Enrico, io continuo a portarlo in giro, a farlo correre, è pur sempre l’unico che ho, pensa che ho scoperto una nuova marca di scarpe con cui mi trovo a meraviglia, a Rotterdam il mese scorso ho fatto 3 ore e 23, cosa avrei dato per averti avuto al mio fianco, Enrico.
Era la nostra quarta maratona, che come le altre avevamo preparato assieme. A ogni allenamento e gara, ormai da cinque anni, ci si stupiva dei passi quasi identici: perciò era così bello correre con lui.
Non avevamo mai raggiunto quel picco di forma. Ci eravamo giurati che se uno dei due avesse rallentato o mollato, l’altro non solo non avrebbe dovuto attenderlo e spronarlo, ma si sarebbe preso l’impegno di proseguire con più lena, tagliare il traguardo per entrambi. Sono quelle promesse un po’ melodrammatiche che scappano per via del sovrappiù di endorfine.
Avevamo iniziato a correre per gioco. L’idea era venuta a Barbara alla cena del nostro quarantesimo: essendo io più vecchio di Enrico di dieci giorni, è dal Liceo che festeggiamo assieme i nostri compleanni, prima con sbronze clamorose, poi con cene al ristorante, infine – da quando ci sono i bambini – in una delle due case. Enrico soffriva di una lieve ipertensione e io stavo accumulando grasso sui fianchi; dopo le solite lamentazioni su come non si riuscisse più a mangiare e a bere come da giovani, Barbara, la moglie di Enrico, ci aveva raccontato di un suo collega che da quando si era messo a correre era diventato un figurino, sempre allegro, chiacchierone, propositivo.
Che ridere i primi allenamenti, io con dolori dappertutto ed Enrico senza fiato dopo cinquecento metri, non lo avevo mai sentito bestemmiare in dialetto, mi ha poi confidato sotto la doccia che gli viene così quando prova un disagio fisico, e io che pensavo di conoscere tutto di lui…
Ed eccoci, dopo cinque anni di allenamenti e gare, alla maratona più importante, dove avremo finalmente puntato a scendere sotto le tre ore e trenta minuti. Avevamo impostato il ritmo tra i 4’55” e i 4’56” al chilometro, per essere sicuri che – se ci si fosse ritrovati (e ci si ritrovava sempre) a correre tre-quattrocento metri in più per lo zigzag – avremmo comunque raggiunto l’obiettivo.
Raggiungere l’obiettivo: quante volte, davanti a un bicchiere di vino, abbiamo preso le distanze da questo lessico idiota, specchio della nostra società meritocratica, noi dinosauri di estrema sinistra, che aggredivamo più o meno scherzosamente chiunque ci chiamasse imprenditori solo perché Enrico gestiva il calzaturificio di famiglia e io avevo aperto un agriturismo. Ma la corsa era la nostra zona franca, in cui accettavamo anche le locuzioni idiote e le promesse melodrammatiche.
Comunque. Al venticinquesimo chilometro stavamo ancora benissimo, la gioia di sentirsi leggeri mi aveva restituito una logorrea che Enrico, fin da ragazzi più saggio di me, teneva a bada implorandomi di conservare le energie. Eppure io gli vedevo il sorriso, che sapevo identico al mio, di chi sente che ce la sta facendo, che ce la farà. Il trentesimo, e lo spauracchio che porta con sé, sono filati via lisci, e poi un chilometro dietro l’altro, un mio minimo cedimento al trentaseiesimo, corso in 5’01”, ma il successivo a 4’54” mi ha rincuorato e dato la forza di spingere ancora, adesso che fatica però, e il lungo rettilineo del trentottesimo, e in fondo al lungo rettilineo la curva a gomito a destra, e dopo quella curva Enrico è morto.
Si è accasciato di colpo a terra, io ho pensato a uno scherzo, andavamo così bene, Enrico, andavamo così bene che mi sono ritrovato a proseguire come se niente fosse accaduto, mi sono ritrovato a correre lontano da lì, il gps diceva 4’50”, poi 4’45”, l’adrenalina, Enrico, la maledetta adrenalina, ricordati la promessa che ci siamo fatti, e trentanove, e quaranta, gli ultimi due li ho corsi sopra i 5’00” per colpa di quell’accelerazione inopinata, e ogni tanto mi voltavo indietro ma tu non c’eri, cazzo, dov’eri?, e il gonfiabile del traguardo, e gli ultimi metri, e il tempo, Enrico, il tempo, 3h28’53”, che soddisfazione, che angoscia, mi sono ritrovato a correre lontano da lì, lontano dal mio migliore amico che si è accasciato di colpo a terra, ma non è vero che se mi fossi fermato ti avrei potuto salvare la vita, non ho la minima nozione di primo soccorso, sei stato tu, Enrico, ad aver partecipato al corso quell’inverno, perdonami, e anche tu, Barbara, mi basta mia moglie che continua a chiedermi perché ho fatto quello che ho fatto e che da quel giorno rifiuta il mio corpo, mi rimprovera di essere andato ad allenarmi anche il giorno del funerale, eppure questo mio corpo che nessuno più tocca, Enrico, io continuo a portarlo in giro, a farlo correre, è pur sempre l’unico che ho, pensa che ho scoperto una nuova marca di scarpe con cui mi trovo a meraviglia, a Rotterdam il mese scorso ho fatto 3 ore e 23, cosa avrei dato per averti avuto al mio fianco, Enrico.
(pubblicato su Repubblica il 28 gennaio 2020)