La conoscenza del mondo

Nella verità minuscola di questa mattina di luglio, in spiaggia è appena comparsa una persona morta. So perfettamente che questa persona è morta (in un incidente automobilistico, qualche mese fa) eppure so, vedo, che questa persona ha steso l’asciugamano a una ventina di metri da me, ha guardato nella mia direzione (magari chiedendosi se fossi o non fossi io: non ci si conosceva bene ma ci si salutava con cordialità) e adesso sta sdraiata supina ad abbronzarsi.
Conosciamo così poco del mondo che non possiamo nemmeno dire dove finisca la verità minuscola di una mattina di luglio.

Se non ci siamo mai persi, nei posti, e se siamo sempre tornati, dai posti, è perché finora ci è andata bene.
Nei posti, a me, sembra sempre di perdermi; dai posti, a me, sembra di non saper mai tornare.
Come ci si fa a fidare di una strada, di un muro, o anche solo di un albero? Che conoscenza abbiamo del mondo?
Per poi scoprire che non è mai stato come pensavamo. Nei posti, noi, continuiamo a perderci; e da nessun posto, noi, siamo mai tornati.

Ci sono due luoghi di Sampierdarena che conosco benissimo. Uno è a dieci metri dal portone del palazzo in cui ho abitato per trent’anni, seduto su quel parapetto mi sono anche baciato con un paio di ragazze; l’altro è il terrazzo al quinto piano di un edificio dove ho lavorato dal 2003 al 2012.
Dal parapetto, qualche anno fa, si è lanciata una coppia di anziani. Dal terrazzo, oggi, 27 gennaio 2017, si è lanciato un giovane spedizioniere.
Allora viene da pensare a tutti i punti che tocchiamo nella nostra vita, che non ci vedono, non sanno cosa facciamo, non sentono il peso dei nostri corpi, non percepiscono la differenza tra il passo di chi sta per dare un bacio e quello di chi sta per suicidarsi, e viene anche da pensare che abbiano ragione i punti, col loro stare, e grande peccato è invece muoversi, perché ogni movimento è verso l’ignoto ma l’ignoto non ci compete, l’unico modo di mettersi in comunicazione con l’ignoto è lasciare che ci inghiotta, ecco, dovremmo rimanere immobili e invece continuiamo ad andare e a non tornare mai più, a essere inghiottiti.

Noi laureati con lode, noi intelligenti e sarcastici, noi che all’ora dell’aperitivo citiamo la Szymborska (ma c’è chi arriva a citare Diego Fusaro), stiamo ben attenti: basterebbe un piccolo incidente, scivolare in casa, sbattere la testa, e dimenticheremmo tutto, una vita di rabbiosa corsa alla conoscenza per sentirci migliori degli altri e poi, in un attimo, ritrovarsi ultimi, i più vuoti di sapere, la vergogna della famiglia, lo zimbello del vicinato.
La verità non può certo coincidere con qualcosa di così fragile: dico la conoscenza ma dico anche il corpo.
E se la verità non c’entrasse con la natura?
E se non fosse la natura a ignorare gli umani affanni, ma la verità a ignorare gli affanni della natura?
Sino a giungere al più difficile dei pensieri: la verità è fuori dalla natura. È fuori dalla vita.

Ecco che gli succede una cosa orribile. Decide di non dirla a nessuno – come farebbe a dirla a qualcuno! – e allora continua a vivere con questo suo segreto da sopportare. Passano gli anni. I decenni. Sente che in qualche modo il segreto, forse ancor più della cosa accaduta, sta condizionandogli l’esistenza. Invecchia. A un certo punto, un giorno, gli viene un dubbio: se abbia fatto davvero bene a serbare il segreto per tutto quel tempo. Passano altri giorni, altri anni, e sempre meno sensata gli sembra questa sua lunghissima ostinazione. Invecchia ancora, si percepisce prossimo alla fine. Cosa serve, si domanda un bel giorno, trattenere ulteriormente il segreto? Si decide: convoca le persone a lui più care e inizia a dire, e mentre parla non avverte la sensazione di svelare una cosa poi così atroce. Quando finisce di confidarsi, nessuno gli appare sconvolto. Nei giorni successivi, tutte le persone convocate continuano a comportarsi come prima, con lui.
E allora lui improvvisamente si sente bene, benissimo, come liberato, senza peso, gli sembra di avere capito tutto quello che c’è da capire della vita, e non prova alcuna vergogna per quel segreto conservato con tanta pervicacia, si convince anzi che se lo avesse rivelato prima non avrebbe potuto capire, e adesso senza la minima malinconia non vede l’ora che sopravvenga la morte, perché oramai ha scoperto la verità e non ha più bisogno di altro.

Sono finito ad abitare in un paese dove non succede mai niente.
Ciascuno ha le proprie idee elementari, fa le proprie semplici cose (lavora, mangia, dorme, fa l’amore, litiga, muore, qualcuno litiga più forte, ogni tanto qualcuno si uccide o uccide qualcun altro, una volta c’è stato chi ha avvelenato l’acquedotto decimando così la popolazione, un’altra volta uno ha appiccato un incendio che ha devastato la maggior parte delle case, procurato centinaia di vittime e altrettanti feriti gravi) e mai che succeda qualcosa, mai niente di veramente diverso, non cambia mai niente, in che paese sono finito ad abitare.

In punto di morte non si pensa agli errori commessi, alle occasioni mancate, né ci si conforta al ricordo dei piaceri, degli amori, dei successi. Si guarda alla propria vita come a una serie di cose che sono capitate e niente più, come se fossero capitate a un altro, come quando si legge un libro o si va al cinema, come quando si fa un’immaginazione. Con la sola, e tutto sommato piccola, differenza che quell’immaginazione sarà l’ultima.

 

(pubblicato su La Nuova Verde il 10 maggio 2017. Illustrazione di Demonia)

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