La settimana del derby

Lunedì

Ieri nessun disordine.
C’era da aspettarselo: la questura ha vietato la trasferta ai tifosi avversari; e comunque, dopo l’accoglienza dell’ultimo anno, anche gli irriducibili hanno rinunciato a muoversi senza biglietto.
Sono le dieci e Vincenzo fatica a svegliarsi. Da domani aiuterà Oscar che ha un’impresa edile, però il lavoro è poco e Oscar è stato chiaro: solo martedì e giovedì.
Vincenzo se la leva di dosso ma Clara torna alla carica. Salta sul letto, lo annusa, gli lecca la faccia.
Clara è un pastore tedesco di sette anni, e l’ultima volta che Vincenzo l’ha pesata era quasi trenta chili.
Squilla il telefono cellulare. Vincenzo con la mano destra imprigiona il muso di Clara, glielo scuote, Clara scodinzola, Vincenzo allunga l’altro braccio sul comodino, afferra il cellulare, legge il numero sul display: sconosciuto. Vincenzo molla il muso di Clara, risponde.
“Sì.”
“Pronto.”
“Chi sei?”
“Vincenzo. Sono Ivan. Dormivi?”
Vincenzo scatta a sedere, indica a Clara di scendere ma Clara si sposta nell’altra metà di letto, Vincenzo sistema il cuscino tra schiena e testiera, si appoggia, dà due colpi di tosse.
“No, no. Ciao Ivan. Dimmi.”
“Ho avuto il tuo numero dal Puma. Come va?”
“Bene. Tu?”
“Bene. Domenica ci sei, ovviamente.”
“Cazzo, vuoi che non ci sia al derby?!”
“Allora senti: dobbiamo vederci. Dopo quello che è successo all’andata, stavolta è da organizzare tutto per bene.”
Vincenzo accarezza la nuca di Clara e imposta la voce: “Assolutamente d’accordo”.
“Mercoledì.”
“Mercoledì. Perfetto: sono libero tutto il giorno.”
“Dài. Ti chiamo io. In gamba, ciao.”
“Anche tu. Ciao, Ivan. Ciao.”
Ivan. Il capo. Ha quarant’anni, un carisma sovrumano e a forza di imprese memorabili si è guadagnato il massimo rispetto di tutte le curve avversarie.
Vincenzo scende dal letto, infila le infradito, esce dalla camera, va dritto in cucina, chiama Clara, apre il frigorifero, prende il cartone del latte. Si volta indietro, guarda in camera. Clara è ancora sul letto, nella posizione di prima.
“Clara.”
Ma Clara non si volta. Vincenzo le vede lo stomaco contrarsi e dilatarsi rapidamente, come se avesse l’affanno.
“Clara!”

Martedì

Di mattina Vincenzo ha lavorato sodo. La fatica fisica gli ha messo una gran fame. Oscar lo anticipa: “Stacchiamo e ci mangiamo un panino? Così mi racconti la telefonata. E io ti faccio vedere una cosa”.
“Mangiamo, sì, ho fame. Quel bar là all’angolo?”
“Dài. Allora? Cosa voleva?”
Vincenzo e Oscar si incamminano.
“Te l’ho già detto: non lo so. Ci vediamo domani perché mi deve parlare.”
“Era incazzato?”
“Ma no. Dopo la storia dell’idrante l’ho incrociato un sacco di volte, in gradinata, e non mi ha mai detto niente. Quindi. La cosa che dovevi farmi vedere?”
Attraversano la strada.
“Quando siamo seduti. Combattimenti? E quel torneo?”
“Fine giugno.”
“Madonna come mi prude.”
“Cosa?”
Entrano nel bar. A destra il bancone, con tre sgabelli: sui primi due, una coppia sulla cinquantina; a sinistra quattro tavolini, vuoti, appiccicati al muro. C’è silenzio. Oscar biascica un saluto al barista, scosta una sedia del secondo tavolino, il barista risponde annuendo prima a Oscar poi a Vincenzo, Oscar si siede, Vincenzo fa un cenno della mano in direzione del barista e si siede anche lui.
Si levano le giacche. Oscar si toglie anche la felpa. Un intricatissimo tatuaggio gli prende tutto il braccio. Si solleva la manica della maglietta sulla spalla, dove il tatuaggio termina.
“Allora?”
Vincenzo lo guarda meglio. È un drago, che sale a spirale dal polso di Oscar. Attorno al drago, motivi floreali, altri animali fantastici, spade, ideogrammi, simboli e arabeschi.
“Quanto ci hai messo?”
“Due mesi. Cinque sedute. Bello, no?”
“Cosa significa?”
“Non lo so. È giapponese. Mi piaceva.”
“Quanto è costato?”
“Tanto. Troppo. Ma ce l’avevo in mente da una vita. Ti ricordi cosa dicevo: se me lo faccio, me lo faccio serio.”
“E questo, è serio.”
“Direi.”
“Da chi sei andato?”
“Da Peter. Avvicinati. Guarda i dettagli: non sono pazzeschi? Se un giorno te ne fai uno, vai da lui.”
“Sì.”
Arriva il barista. Ordinano due panini e due birre medie alla spina. Oscar si risistema la manica della maglietta. Guarda Vincenzo negli occhi. Lo indica: “Sai chi ho visto, da Peter?”.
“Chi?”
“Valentina. Si faceva un tatuaggio sulla caviglia. Piccolo.”
“Ah sì?”
“Perché?”
“Ma niente. Finché stava con me diceva di essere contro, i tatuaggi. Le donne.”
“Già.”
“Già.”
“Oh, non è escluso che l’abbia fatto proprio per reazione.”
Il barista spunta da dietro Vincenzo con le birre: “Ora porto i panini”.
Le posa. Torna dietro al bancone. Vincenzo afferra la birra per il manico. Stringe. Guarda le bolle salire in superficie.
“Per me può fare tutto quello che vuole. Ormai non mi interessa più.”
Oscar prende e solleva la sua birra: “Cin?”
“Cin. Stamattina ho trovato ancora quasi tutto il mangiare di Clara nella ciotola. Da ieri è stranissima.”

Mercoledì

“Siediti, Vincenzino. Come stai?”
“Io bene.”
“Sicuro che non ti servono soldi?”
“Sicuro ma’, sicuro. Io sto bene. Ma Clara mica tanto.”
“Oh, povera. Che cos’ha?”
“Non lo so. Sono due giorni che non mangia. Vomita. Non vuole uscire.”
“Bisogna chiamare il veterinario.”
“Sì, infatti. Il numero ce l’hai tu. Me lo vai a prendere?”
“E hai aspettato due giorni a chiedermelo? Potevi farmi una telefonata.”
“Per favore, ma’, con le prediche. Me lo vai a prendere il numero?”
“Te lo do anche il numero di Vanessa? La mia amica del negozio di animali. Vincenzino: devi avere riguardo per te e per le tue cose. Sei diventato grande e grosso più di tuo padre ma a me sembri sempre così…”
“La storia del bambino no, eh, ma’.”
Il veterinario non può prima di lunedì: è in ferie, rientra domenica sera. Vincenzo gli spiega che secondo lui la situazione è urgente. Il veterinario fa un paio di domande, poi gli dà il nome di un farmaco e spiega: “sono pastiglie”. E Vincenzo: “come gliele do?” E il veterinario: “gliele metta nel cibo”. E Vincenzo: “ma ha capito che non sta mangiando?” E il veterinario: “allora le apra la bocca e cerchi di infilargliele in gola”. E Vincenzo: “quante?” E il veterinario: “una al mattino e una alla sera, a stomaco pieno”. E Vincenzo: “ma tu sei veramente un imbecille”. E chiude la chiamata.
Il tempo di risistemarlo in tasca e il cellulare si mette a vibrare. Vincenzo lo prende e legge il numero.
“Oh. Ivan.”
“Enzo.”
Nessuno lo aveva mai chiamato Enzo. Al massimo, gli amici, Vince.
“Allora, Ivan: ci vediamo?”
“Sì. Ce la fai a fare un salto al club?”
“A che ora?”
“Io sono qui.”
“Arrivo. Sono vicino. Cinque minuti.”
“Dài. Ciao.”
“Ciao.”
Non era mai entrato al club. Vincenzo non fa parte di nessun gruppo. Citofona. Gli aprono. Sale due rampe di scale. La porta è socchiusa. Entra. Nel vano d’ingresso, sulla sinistra, quattro ragazzi stanno giocando a calcio-balilla; sulla destra c’è un grande mobile in metallo a due ante, piene di adesivi del club. Appese ai muri, fotografie di giocatori, di coreografie, di scontri.
“Ciao.”
I quattro interrompono la partita.
“Oh, Vince”, fa il Puma. Il fratello del Puma abbassa lo sguardo. Gli altri due sono più giovani, sui diciotto anni. Lo guardano fisso, rigidi. Vincenzo ne conosce uno di vista.
“Ciao, Puma. Ivan?”
“Di là. Ti aspetta.”
“Bene. Ciao.”
Vincenzo apre la porta, entra nell’altra stanza. Sulla sinistra ci sono un divano ad angolo, in pelle nera, sdrucito, e due sedie; al centro della stanza un mobiletto basso, in legno; sul mobiletto, un vecchio televisore spento. Al centro della parete di destra, un finestrone da cui penetra una luce lattiginosa. Nell’angolo in fondo a destra, un frigorifero. Nella parete di fronte a Vincenzo, sulla sinistra, una porticina bassa e stretta, in alluminio, col pannello superiore in vetro smerigliato.
Sul lato lungo del divano sono seduti Ivan e Beppe, sul lato corto Mazinga. Sulle sedie, Darione e Nero. Tutti con una bottiglia di birra in mano.
I più anziani. I più temuti.
“Eccolo”, fa Ivan.
Sono lui e Darione a parlargli. Gli spiegano che al derby di andata hanno fatto una figura di merda senza precedenti. Colpa dei pivelli: prima provocano, poi scappano. Bisogna rifarsi con un’azione clamorosa, cioè andandoli a pescare sotto la loro curva. Poi gli dicono che l’unico dei giovani all’altezza è lui, l’hanno vista tutti la scena degli idranti. Nero si alza, va al frigorifero, prende una birra, gliela stappa e porge.
“E io cosa dovrei fare?”, domanda Vincenzo guardandosi riflesso nello schermo del televisore.
“Venire con noi – gli risponde Ivan – Vogliamo tirar su un gruppo di gente decisa. Pochi ma fidati. Tu cosa dici?”
“Dico che va bene”, risponde Vincenzo stringendo la bottiglia di birra.
“Allora ci sentiamo prima di domenica per i dettagli, gli fa Darione. Stammi bene.”
Vincenzo saluta tutti. Tutti salutano Vincenzo.
“A domenica, Enzo”, soggiunge Ivan.
Nessuno lo aveva mai chiamato Enzo.

Giovedì

Vincenzo sente vibrare. Posa la cazzuola sul muretto. Si asciuga il sudore dalla fronte con la manica della felpa. Estrae il telefono cellulare. Legge il nome: Valentina. Deglutisce. Fa una smorfia. Inspira. Rifiuta la chiamata.

Venerdì

Vincenzo ha dormito male. Tasta coi polpastrelli il comodino. Trova il telefono cellulare. Lo prende. Legge l’ora sul display. Le sette e dieci. È ancora buio. Accende l’abat-jour. Scende dal letto. Infila le infradito. Va in cucina. Accende la luce. Controlla le ciotole di Clara: quella dell’acqua è quasi vuota, quella del cibo è quasi piena. Clara gli arriva da dietro. Ansima. Si sdraia su un fianco, al centro della cucina. Vincenzo si volta. Guarda lo stomaco smagrito di Clara. Clara guarda Vincenzo negli occhi. Vincenzo guarda Clara negli occhi. Clara guarda Vincenzo negli occhi. Vincenzo abbassa lo sguardo. Clara emette un suono breve, acuto, flebile. Vincenzo si volta di scatto, fa due passi, prende la scatola con le pastiglie dalla mensola accanto al lavandino, sfila uno dei due blister, estrae una pastiglia, rinfila il blister nella scatola, la posa sull’orlo del lavandino, torna al centro della cucina, si accuccia, accarezza Clara sul muso, le apre la bocca. Clara non oppone alcuna resistenza.
Vincenzo getta la pastiglia nella gola di Clara. Clara guarda Vincenzo negli occhi. Vincenzo abbassa lo sguardo. Lo devia in basso a sinistra. Vede ai piedi del mobile della cucina una chiazza di vomito. Stringe i pugni. Si raddrizza. Guarda il soffitto. Torna in camera a passi lenti, uguali. Chiude, piano, la porta. Sferra un calcio a una gamba della sedia di legno che trabocca di vestiti sporchi. La gamba si spezza, la sedia cade da un lato, i vestiti attutiscono il rumore della caduta.

Sabato

“Pronto, ma’.”
“Vincenzino, tesoro. Come va?”
“Mh. Tu?”
“Io bene. E quella povera bestia?”
“Se ne sta andando. Stamattina non riesce neanche più a muoversi.”
“Ma no che non se ne sta andando. Mi hai dato retta? L’hai chiamata Vanessa?”
“L’ho chiamata. Appunto.”
“Perché appunto? L’ha vista? E cosa dice?”
“L’ha vista ieri. Dice che è toxoplasmosi acuta in fase avanzata. E che le resta pochissimo da vivere.”
“Oh, che brutta cosa mi dici. Ma magari Vanessa si è sbagliata, non è mica un medico. Bisognerà prima fare delle analisi, no?”
“Dice che i sintomi sono quelli.”
“Aspettiamo di sentire il veterinario.”
“Aspettiamo.”
“Vuoi che venga lì da voi, piccolo?”
“No, ma’.”
“Cosa ti serve? Soldi? Medicine? Gioia mia. Vuoi che ti faccia la spesa?”
“Ma’…”
“Dimmi.”
“Dài, con questi nomignoli.”
“Scusami, Vincenzo. Mi viene spontaneo.”
“Senti una cosa, ma’…”
“Di’.”
“Papà: era ieri, vero?”
“Sì, Vincenzo. Due anni ieri.”
“E…”
“Dimmi.”
“E ti manca?”
“Sì. Sì che mi manca. Certo che mi manca. E a te, Vincenzino? Manca, papà?”
“Vincenzo, ma’. Vincenzo.”
“Vincenzo. A te?”
“Sì. Adesso devo andare. Ciao, ma’.”
“D’accordo, ciao. E tienimi aggiornata su Clara. Ah: è domani quella partita importante, vero?”
“Sì, ma’: il derby.”
“Speriamo bene, eh?”
“Speriamo bene. Ciao, ma’.”
“Ciao, bambino mio. Riguàrdati. Ciao.”

Domenica

Vincenzo ha sognato di giocare il derby: una partita equilibrata ma brutta, sotto una pioggia fitta. Era un centrocampista benvoluto dai tifosi, più caparbio che bravo.
Agguanta il telefono cellulare, legge l’ora: le nove e dieci. Guarda le tende gonfie di luce che filtra dalle persiane: è una giornata di sole. Guarda ai piedi del letto. Dal suo lato. Solleva il busto. Dall’altro lato.
C’è Clara riversa su un fianco.
Vincenzo si risdraia. Ha caldo. Si leva le lenzuola di dosso. Chiude gli occhi. Li strizza, li riapre. Risolleva il busto. Guarda Clara. Scivola nell’altra metà di letto. Scende. Le si inginocchia accanto. La scuote. La scuote più forte. Le accarezza il muso. Torna a sdraiarsi a letto. Le gambe tese, unite; le braccia tese, lungo i fianchi. Rimane così, immobile, per qualche minuto. Poi allunga un braccio sul comodino. Prende il cellulare. Cerca un numero. Chiama.
“Pronto, ma’.”
“Tesoro, ciao.”
“Clara è morta, ma’. È qui di fianco al letto. Morta.”
“Oh, no. Vengo subito, vuoi?”
“No, ma’. No. Volevo solo dirtelo. Ti chiamo dopo. Va bene?”
“Vincenzino, se posso…”
“Va bene, ma’?”
“Sì, va bene. Però chiama, d’accordo? Chiama.”
“Sì ma’, chiamo. Ciao.”
“Ciao. Piccolo mio. Chiama. Ciao.”
Vincenzo chiude la chiamata. Va a ringinocchiarsi accanto a Clara. La scuote. Torna a letto. Cerca un altro numero sulla rubrica del cellulare. Guarda il primo cassetto del comodino. Si passa una mano sul volto. Chiama. C’è la segreteria telefonica. Dopo il segnale acustico, Vincenzo resta in silenzio. Sente il proprio respiro. Sente l’odore di Clara. Chiude la chiamata. Guarda il display. Richiama. Dopo il segnale acustico dà un colpo di tosse.
“Sì, Vale, sono io: Vincenzo. Senti: volevo dirti che è morta Clara. Mi sono svegliato ed era qui, di fianco al letto, morta. Non stava bene da un po’. Ecco, dài, volevo dirtelo, scusa, ciao allora, ciao.”
Vincenzo apre il primo cassetto del comodino. Prende una fotografia inserita in un portafoto di plexiglas. Soffia via la polvere. Si sistema sul letto a gambe incrociate. Posa la fotografia tra le gambe. Il cellulare squilla: Ivan.
“Pronto.”
“Pronto, Enzo. Ciao.”
“Ciao. Ivan.”
“Come va?”
“Di merda. Tu?”
“Come di merda?”
“Di merda.”
“Mh. Ci vediamo alle dieci dal distributore. Ce la fai?”
“Mi sa di no.”
“E quando ce la fai?”
“Ti richiamo io? Stamattina è successo un casino.”
“Enzo.”
“Sì. Ivan.”
“Non mi prendere per il culo.”
“Non ti prendo per il culo.”
“Io aspetto che mi chiami. E ti voglio vedere prima delle undici. Dobbiamo organizzare tutto. Intesi?”
“Intesi?”
“Ti richiamo tra poco.”
“Per forza. A dopo. Ciao.”
“Ciao.”
Vincenzo chiude la chiamata. Guarda il display. Posa il cellulare sul letto, accanto a sé. Guarda la foto. Prima i contorni: il poco di cielo che si vede, i capelli, il colletto della camicia. Poi lo guarda in faccia. Gli occhi neri, piccoli, decisi. Vincenzo sente i bicipiti in tensione. Guarda il sorriso, il bel sorriso placido di suo padre. Preme con le dita sul copriletto. Bestemmia la Madonna. Sorride a suo padre. Sente un vociare dalla strada: riconosce un coro dell’altra squadra della città. Prende il cellulare. Chiama.
“Oh, già tu. E allora?”
“E allora non vengo, Ivan. Oggi non è giornata.”
“Col cazzo non vieni, Enzo. Dopo il discorso dell’altro giorno. Dopo che ti abbiamo detto che ci fidiamo di te.”
“Ma io oggi non ce la faccio. A posto così. Ci vediamo appena riesco. Ciao, Ivan, ciao.”
“A posto così un cazzo. Tu ora ti prepari e ti presenti all’appuntamento, se no vengo a prenderti per le orecchie, Enzo.”
“Ti ho detto di no. E mi chiamo Vincenzo, coglione. Non Enzo.”
Vincenzo chiude la chiamata. Spegne il cellulare. Guarda il muso di Clara. Guarda il volto di suo padre. Si posa le mani sulle ginocchia.
Scoppia a piangere.

 

(pubblicato su L’inquieto il 18 aprile 2017. Illustrazione originale di Elena Della Rocca)

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