Parola di Marlowe

Parola di Marlowe (volume uscito per Il Canneto Editore nell’ottobre del 2016 a cura di Carlo Vita) è un’appassionante raccolta di citazioni – suddivise in capitoli tematici – tratte dai due racconti e dagli otto romanzi di Raymond Chandler che hanno per protagonista il leggendario investigatore privato Philip Marlowe.

La lettura di questa cospicua serie di estratti ha ricordato a chi scrive che, se la letteratura ha il compito di perlustrare le quote più ineffabili del mondo, allora anche i maestri del giallo (o più precisamente dell’hard boiled, come nel caso di Chandler) possono essere considerati a pieno titolo autori di letteratura.

Fin dal primo capitolo, in cui vengono proposti gli incipit delle dieci narrazioni, sorprende come la descrizione di un ambiente sappia essere movimentata da un qualche elemento che, non armonizzandosi con la scena, ha il potere di renderla misteriosa, indocile: “Palazzo Trelloar era, ed è, situato in Olive Street, vicino alla Sesta Avenue, sul lato Ovest. Il marciapiedi, di fronte ad esso, era fatto, originariamente, di blocchi di gomma bianca e nera. Quando ci passai stavano tirandoli su, per darli allo Stato, e un uomo pallido, senza cappello, che dalla faccia pareva il direttore del palazzo, stava osservando i lavori, come se la cosa gli spezzasse il cuore”, p. 13.

La straordinaria sensibilità che permette alla voce narrante di presentire il lato segreto e oscuro delle cose, in Philip Marlowe si declina in un finissimo spirito d’osservazione: “La bambola era in camicetta e gonna scozzese, sotto uno spolverino sportivo. Il cappello, abbastanza fuori moda da far pensare a un rovescio di fortuna, le nascondeva quasi completamente la chioma rossa. Nessun trucco, la faccia confessava i suoi circa trent’anni in quell’espressione tesa, stremata. E la mano che teneva la sigaretta era sin troppo ferma… una mano sulla difensiva”, p. 15.

Questa capacità di insinuarsi nelle pieghe più nascoste dei fatti, delle psicologie, libera una grande varietà di metafore e similitudini, spesso tanto fantasiose quanto persuasive. Per prendere uno dei numerosi esempi disseminati nelle pagine del libro: “Lei tornò col bicchiere, le sue dita gelate per aver toccato il ghiaccio sfiorarono le mie, io le trattenni un attimo e poi le lasciai andare così come si abbandona un sogno, lentamente, quando ci si sveglia col sole in faccia dopo essere stati in una valle incantata”, p. 18.

Peculiarità di Marlowe è quella di saper interpretare ogni comportamento o gesto insolito come segnale non solo di uno stato d’animo ma pure di un’indole: “Sul suo viso era apparsa un’espressione nuova, un’espressione vivace, luminosa, e, insieme, un po’ sciocca. L’espressione di un debole che si sente orgoglioso”, p. 34.

Tale profonda conoscenza della natura umana induce (condanna) il detective a percepire il nucleo più autentico dell’emotività, propria e altrui, al di là di ogni eventuale concessione al sentimentalismo o all’infingimento: “La strinsi a me e lei mi pianse sulla spalla. Non mi amava, e lo sapevamo entrambi. Non piangeva per me. Era semplicemente giunto il momento di versare qualche lacrima”, p. 29.

Questa prospettiva disincantata, severa, trova nell’ironia un parziale risarcimento: “«Se non sbaglio siete un investigatore. Un investigatore in gamba».
«Oh», dissi, «appena un tuttofare. E neppure in gamba. Non lasciatevi imbrogliare dal labbro superiore che sporge in fuori. È solo una caratteristica di famiglia»”, p. 59.

Ironia che, vista la professione di Philip Marlowe, sovente assume sfumature amare quando non macabre: “Nessuna delle due persone che si trovavano nella stanza fece caso al mio strano modo d’entrare, sebbene una sola fosse morta”, p. 85.

Il fascino di Marlowe deriva proprio dal suo atteggiamento nei confronti della vita: egli pare aver compreso alla perfezione i meccanismi che regolano i rapporti interpersonali e, nel contempo, la distanza incolmabile che ci separa dal senso ultimo delle cose; questa doppia e in fondo contraddittoria sicurezza lo spinge a fare largo uso dell’astuzia ma, assieme, gli impone di restare fedele alla propria integrità morale: “Lo stenografo trascrisse le mie dichiarazioni. Nessuno mi interruppe. Era tutto vero. La verità e null’altro che la verità. Ma non tutta la verità. Ciò che omisi era affar mio”, p. 130.

E proprio la distanza dal senso ultimo delle cose trasforma l’altrimenti impavido e inflessibile Phil in un uomo capace di prendersi gioco di sé, sia in privato che in pubblico: “Rimasi a lungo seduto prendendo la vita sul serio”, p. 140; “«Non dirmi niente, ti raccomando», dissi, «Continua a farmi domande alle quali non sono in grado di rispondere. Fa bene al mio complesso d’inferiorità»”, p. 142.

Questa sensazione di solitudine esistenziale, inoltre, rende inevitabilmente Philip Marlowe un personaggio malinconico. Infatti, per quanto infallibili siano le sue indagini in àmbito professionale, la sua ricerca ulteriore è destinata a restare infruttuosa; allora, in una confusione quasi allucinatoria di piani temporali, l’inattingibile pare equivalere a ciò che irrimediabilmente si è smarrito: “E mentre vedevo la casa sparire, provai, dentro di me, una sensazione strana, come se avessi scritto una poesia molto bella e l’avessi perduta, e sapessi che non l’avrei più potuta ricordare”, p. 163.

Viene infine da pensare che, così come Chandler dichiarò di aver inventato il personaggio di Marlowe per assomigliare a ciò che non sarebbe mai potuto essere, allo stesso modo l’investigatore si accanisce a risolvere quel poco che possa essere riportato a una norma giuridica o morale, accerchiato com’è dagli abissi dell’universo.

 

(pubblicato su Squadernauti il 10 marzo 2017)

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