Briciole dai piccioni

Vivere non significa necessariamente aderire al mondo, accettarlo, accordarvisi. Càpita di esser vivi, non lo si sceglie: dunque è plausibile percepire l’esistenza come una condizione estranea a sé, che suscita quasi esclusivamente indifferenza, malanimo o sgomento.

Proprio come accade al protagonista di Briciole dai piccioni di Alessandro Turati, uscito per Neo Edizioni nell’ottobre del 2016.

Egli ci racconta la propria vita dividendola in quattro tappe, che corrispondono alle sezioni di cui si compone il volume: Infanzia, Adolescenza, Alcolismo, Disoccupazione.

Nelle pagine dedicate all’infanzia, gli adulti sembrano contravvenire sistematicamente – per caratteristiche sia fisiche che comportamentali – al senso estetico e morale dell’io narrante: “Guardo la vecchia e in lei tutto è sproporzionato: testa, braccia, mani, gambe e piedi. È tutto mal misurato e infilato a caso intorno al tronco. E Cristo, è la persona più brutta della giornata. Se il mondo là fuori ha di queste creature, penso, io non voglio uscire mai, mai, mi accontento della finestra sul lago o del mio volto riflesso nel vetro. E lo so, non è giusto giudicare le persone dal loro aspetto fisico, tanto basta conoscerle un poco e fanno cagare uguale”, p. 24.

Anche i suoi genitori (i loro gesti, il loro rapporto) sono visti come irrimediabilmente anomali; e l’umorismo delle loro descrizioni pare, più che un effetto narrativo, il risultato di ciò che il bambino osserva senza poterlo ricondurre a un’interpretazione logica: “Poi fanno pace. Papà rientra e si siede in un angolo a gambe accavallate e muove il piede sospeso in modo frenetico. Fuma la pipa. Fa un sacco di smorfie quando fuma la pipa. Secondo me non gli piace fumare la pipa. E mamma si arrabbia di nuovo, ma non per la pipa, non si capisce il motivo, il suo umore cambia rapidamente, il suo sistema nervoso è fuori controllo, a volte non sembra nemmeno parlare con lui, grida contro le pareti e i quadri da quattro soldi appesi storti da papà”, p. 29.

La sordità e la ferocia degli umani verso i propri simili si declinano in dialoghi spesso irresistibili, che gli interlocutori concludono non per un raggiunto accordo ma per reciproco sfinimento:
“«Sei un bugiardo!»
«Troia!»
«Cosa?»
«Puttana!»
«Così mi fai piangere!»
«Ti puzzano i piedi da morire!»
«Mi sto mettendo a piangere!»
«Me ne sbatto!»
«Piango…»
«Fai sul serio?»
«Sì, piango…»
«Dai, mi dispiace».
«Sei cattivo!»
«Scusami».
«Perché dovrei?»
«Scusami».
«Va bene, ti perdono, non importa».
«Davvero non importa?»
«Davvero, non importa».
«Giurami che non importa».
«Giuro che non importa»”, pp. 32-3.

Nella seconda sezione, Adolescenza, il protagonista prende serenamente coscienza della propria inattitudine alla vita. Senza individuare colpevoli, senza struggersi: “È così che scopro che le prime scelte non fanno per me, che dovrò accontentarmi di quella con gli occhiali che parla veloce senza respirare, di quella emotiva che all’esame di guida siede nel posto del passeggero e si domanda dov’è finito il volante, di quella persona ottusa che butta il tempo a seguire le mode poiché priva di personalità. E non c’è niente di ingiusto in tutto questo, guardandomi allo specchio”, pp. 79-80.

Si passa poi all’Alcolismo, approdo quasi naturale per chi ha condotto un’esistenza così strenuamente asincrona al mondo. Eppure, chi del mondo non ha saputo cogliere le lusinghe (e la retorica) è capace, forse, di un punto di vista più obiettivo sugli individui:
“«I tuoi genitori devono avere un sacco di soldi» le dico.
«Non parliamo mai di soldi».
«Perché avete un sacco di soldi».
«Non mi sembra un difetto».
«Perché avete un sacco di soldi».
«Hai intenzione di ripetere questa frase ancora per molto?»
«Può darsi»”, p. 113.

Curiosamente, solo all’inizio della quarta sezione (Disoccupazione) compaiono nome e cognome del protagonista, Alessio Valentino; un’omissione così prolungata è sintomo di un disinteresse talmente profondo nei confronti della vita da non risparmiare nemmeno la propria identità.

In rarissimi momenti, Alessio lascia forse intravvedere l’origine della sua indole. Come se l’intera sua biografia corrispondesse a un unico, gigantesco atto di rimozione:

“Mio padre sta morendo e non mi stupisce la cosa. E nemmeno m’importa, a dire il vero, è la sua storia. […] Mio padre è nato sessantasei anni fa e ora sta morendo. È ridicolo. È la cosa più ridicola che abbia mai sentito”, pp. 144-5.

Ma la vita è sorda a ogni suggestione di causalità, di affinità; è un accumulo di situazioni ingovernabili, che nella più lieta delle ipotesi danno luogo a vicende involontariamente comiche:
“Ogni tanto faccio volontariato alla prigione qua dietro. Ho seguito il consiglio di Bea: aiutare gli altri a stare meglio. Tengo un corso di pittura. Alcuni carcerati dipingono e basta, altri hanno voglia di parlare. Uno, per esempio, mi confida che avrebbe voluto uccidere la madre, poi però ha temporeggiato ed è morta da sola. Ciononostante, questo pensiero lo ha perseguitato giorno e notte per vent’anni, quindi non ha potuto far nient’altro che uccidere la moglie, che ormai aveva sembianze e comportamenti di una madre.
«Ti sei pentito?» gli chiedo.
«Certo, se avessi ucciso mamma non sarebbe successo tutto questo casino»”, p. 162.

 

(pubblicato su Squadernauti il 25 novembre 2016)

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