Non gli sembravano più le sue

C’era una volta uno scrittore in crisi.

Allo scrittore in crisi, la realtà aveva semplicemente smesso di sembrare qualcos’altro. Un albero, una casa, un tramonto, un bambino che giocava col pallone, non gli apparivano più come metafora di alcunché ma erano solo e semplicemente un albero, una casa, un tramonto, un bambino che gioca col pallone.

Lo scrittore in crisi, allora, si era messo a rileggere stralci di libri suoi e di altri autori: e si era vergognato un bel po’, nello scoprire quell’infinità di tentativi, propri e altrui, di far passare la realtà per ciò che la realtà non è.

E non soffriva mica di depressione, lo scrittore in crisi: anzi! La realtà non gli era mai sembrata così bella, adesso che un albero non era altro che un albero, una casa nient’altro che una casa, eccetera.

Le cose, adesso, allo scrittore in crisi sembravano più piene, più vive, più vere. Soltanto, non gli sembravano più le sue.

E così lo scrittore in crisi, senza la minima difficoltà, smise per sempre di scrivere.

E gli venne un pensiero: gli scrittori si ostinano a credere che la realtà ci parli, mentre la realtà è lì per essere vissuta e non per instaurare dialoghi; e non comprenderlo (o si dovrebbe dire non accettarlo?) è sintomo forse di grande immaturità forse di grande superbia, o più probabilmente è un’atroce, reiterata bestemmia contro la bellezza semplice e muta del mondo.

 

(pubblicato su Squadernauti il 30 agosto 2016. Illustrazione originale di G. C. Cuevas)

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