Eppure l’uomo è chiamato proprio a esplorare questa verticalità, in virtù di una caratteristica sostanziale che lo differenzia dagli altri animali: “Non si tratta più semplicemente di essere consapevole, ma della capacità di essere consapevole della propria consapevolezza” (p. 30); capacità che Schumacher chiamerà autocoscienza.
Se l’esercizio dell’umana autocoscienza non può che essere una tensione limitata (nel tempo e nell’intensità), un’ipotetica autocoscienza infinita, cioè un distacco assoluto dalle necessità materiali, sarebbe un attributo divino: “È possibile immaginare un essere perfetto che esercita sempre e invariabilmente la sua capacità di autocoscienza, che è la capacità di libertà, nel senso più completo, non toccata da alcuna necessità. Questo sarebbe un Essere Divino, una capacità onnipotente e sovrana, una perfetta Unità”, p. 48.
Invece la nostra autocoscienza, pur nella sua finitezza, può fungere da impulso per intraprendere un percorso verso il trascendente: “L’autocoscienza, che rappresenta la differenza tra l’animale e l’uomo, è una capacità di illimitata potenzialità, una capacità che non solo rende umano l’uomo ma gli dà la possibilità, per non dire la necessità, di mirare al sovrumano”, p. 59.
Ma non si mira al sovrumano con gli strumenti della scienza. La dimensione verticale non è calcolabile, e neppure scalabile come se alla sua sommità vi fosse un traguardo: “Soltanto attraverso il «cuore» si può produrre il contatto con i gradi superiori di significazione”, pp. 67-8.
Da qui in poi il cuore sarà chiamato fede, in contrapposizione all’aspetto quantitativo e possessivo dell’esistenza, rappresentato dall’intelletto: “la fede, invece di esser presa come guida capace di condurre l’intelletto alla comprensione dei livelli superiori, è vista come qualcosa che si contrappone e respinge l’intelletto e quindi viene essa stessa respinta”, pp. 84-5.
Se da un certo punto in avanti il libro propone uno schema forse troppo rigido (nei quali io e mondo sono indagati attraverso quattro campi di conoscenza), è interessante soffermarsi sul concetto cardine dell’opera, ribadito in diversi passaggi: grazie all’autocoscienza, l’uomo può allontanarsi dalle esigenze dei sensi e dall’imperio dell’intelletto (da un atteggiamento, quindi, egoistico) per raggiungere un’umanità più piena, dove alla brama di accrescimento e affermazione di sé si sostituisce la pura volontà di relazione.
E la relazione più profonda, più alta, è quella con l’invisibile: “Solo con la liberazione di se stessi dal servaggio dei sensi e della funzione pensante – gli uni e l’altra servitori e non padroni – ritirando l’attenzione dalle cose viste per darla alle cose non viste – questo «risveglio» dell’uomo potrà essere conseguito”, p. 118.
Il libro si conclude con una suggestiva coincidenza tra amore di sé e amore di Dio. L’autocoscienza può infatti risanare l’amore di sé, trasformandolo da amore narcisistico in amore per il proprio autentico bene, che è proprio l’amore per l’invisibile, l’amore per Dio: “Mi si chiede di amare il mio prossimo come me stesso, ma io non posso amarlo affatto (se non sensualmente o sentimentalmente) finché non sono giunto ad amare sufficientemente me stesso […]. Come potrei amarlo o aiutarlo, il prossimo, se devo dire, con san Paolo, «il mio stesso comportamento mi confonde. Infatti, mi ritrovo a fare, non quello che voglio veramente, ma quello che veramente aborrisco»? Per essere in grado di amare e aiutare il mio prossimo e me stesso, sono richiesto di «amare Dio», cioè di tenere in estensione la mia mente strenuamente e con pazienza verso le cose più alte […]: soltanto lì vi è «bene» per me”, pp. 197-8.
(pubblicato su Squadernauti il 7 giugno 2016)