La politica dell’impossibile

Ne La politica dell’impossibile (Iperborea, marzo 2016, prefazione e traduzione di Fulvio Ferrrari, postfazione di Goffredo Fofi) sono raccolte diciassette brevi prose che Stig Dagerman scrisse tra il 1943 e il 1952 per le più svariate occasioni.

Non è necessario illustrare ciascuno di questi avvenimenti e la relativa posizione di Dagerman, quanto piuttosto mostrare l’atteggiamento complessivo dello scrittore, che già ventenne percepiva l’esistenza sì come oscurità, ma come un’oscurità comune a tutti gli uomini. Da qui deriva un istintivo senso di solidarietà e l’incapacità di considerarsi incolumi solo perché (momentaneamente e casualmente) non toccati da alcuna disgrazia sociale o privata: “viviamo nella nostra sicurezza la vita dei perseguitati”, p. 26.

Dagerman, con grande coraggio e altrettanta naturalezza, afferma in più punti la sua ostilità nei confronti di ogni generalizzazione, semplificazione, concessione alla retorica, insomma verso ogni bisogno di consolazione: “La concezione popolare […] secondo cui tutto il pensiero reazionario esistente sarebbe circoscrivibile ai cosiddetti reazionari […] si è spesso rivelata pericolosa. Pericolosa in quanto mina la vigilanza e induce a pensare che qualsiasi cosa provenga, per esempio, da coloro che si definiscono progressisti sia in effetti progressista, che qualsiasi cosa provenga dall’area radicale sia radicale” (pp. 27-8).

Perfettamente consapevole dei severi limiti (sociali e fisici) entro cui scorre la vita, Dagerman ritiene indispensabile una costante tensione verso il loro superamento. Per non essere in debito con la propria coscienza occorre affrontare l’inaffrontabile: “Eppure è necessario ribellarsi, attaccare questo ordine nonostante la tragica consapevolezza […] che ogni difesa e ogni attacco non possono essere altro che simbolici, e tuttavia devono essere tentati, se non altro per non morire di vergogna”, p. 44.

Ciò vale in particolar modo per gli scrittori: “In quanto anarchico (e in quanto pessimista, nella misura in cui è consapevole che il suo contributo potrà forse avere solo un significato simbolico), lo scrittore può intanto attribuirsi in buona coscienza il modesto ruolo del lombrico nel terriccio della cultura che altrimenti si disseccherebbe nell’aridità delle convenzioni. Essere il politico dell’impossibile in un mondo dove sono troppi i politici del possibile è, nonostante tutto, un ruolo che personalmente mi può soddisfare”, pp. 57-8.

Dagerman, con lucidità quasi profetica, sa individuare il nucleo del malessere esistenziale contemporaneo: “l’angoscia creata dalla fame, dalla sete, dall’inquisizione sociale è stata, almeno in linea di principio, sostituita come strumento di dominio nello stato del benessere dall’angoscia dovuta all’incertezza, all’impossibilità dell’individuo di decidere il proprio destino nelle questioni essenziali”, pp. 54-5; “La paura della povertà – che del resto è tutt’altro che eliminata – comincia forse ad attenuarsi, ma la paura del confronto con l’insensatezza della propria esistenza aumenta tanto di più quanto più aumenta la distanza tra la perfezione della meccanica e la libertà individuale”, p. 68.

Tuttavia, lo scrittore trae il meglio dalla propria acutissima sensibilità quando è chiamato ad argomentare sul dramma metastorico, eterno, dell’esistenza. Ne Il radioso avvenire…, Dagerman risponde alla lettera di una maturanda preoccupata per il proprio futuro: “Lei stessa è la prima e ultima autorità riguardo alla Sua vita. Non si fidi perciò nemmeno di questa lettera, finché non avrà raggiunto un punto della Sua vita in cui l’esperienza Le parlerà con la Sua stessa voce”, pp. 109-110; “Sembra purtroppo che le forme di schiavitù della vita imitino quelle della scuola, con la differenza che quelle della vita sono molto più dure e spietate nei confronti degli allievi”, p. 111; “diffidi della libertà che la vita le offre, perché è ben poca cosa. Ma conservi finché può quel senso di libertà di cui sta facendo ora esperienza […] Se sarà abbastanza intenso La aiuterà più di qualsiasi consigliere nelle questioni della vita e del cuore, come ha aiutato me nei momenti in cui la vita mi si stendeva davanti come un deserto”, p. 112; “Le auguro anche ogni successo, ma più ancora Le auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà”, pp. 112-3.

L’insensatezza e la brevità che informano tutte le vite, sembra dirci Dagerman, non permette a nessuna di esse di porsi come esemplare. Ma ciò non dà affatto luogo a una prospettiva egoistica: la solidarietà è già un dato implicito nella drammatica condizione umana.

Ad accomunare gli individui è poi l’anelito alla libertà, che per Stig Dagerman corrisponde a un esercizio estenuante ma necessario: credere all’impossibile.

 

(pubblicato su Squadernauti il 15 aprile 2016)

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