La verità è che uno scrittore non può essere scrittore e qualcos’altro. La minima distrazione dalla scrittura equivale già al massimo del tradimento, alla resa incondizionata. E così si ritorna alla vita, ai gesti, che uno dopo l’altro compongono le vicende.
Invece la scrittura, come ogni scelta radicale, è distrazione assoluta dalle vicende, è immersione assoluta nel ritmo.
Allora la domanda andrebbe riformulata: vivere o scrivere?
Vivere è organizzare l’esistenza meccanica. Scrivere è organizzare una fuga quotidiana dall’esistenza meccanica; è, in fondo, un diuturno suicidio.
Ma no che non è così. L’esito è sempre il medesimo: un giorno non vale che un giorno e la morte arriva alla fine di ogni vita, a prescindere da come la si consumi.
Ogni gesto è interno alla vita. Non esiste alcuna fuga. Esistono solo la vita e la morte.
Ecco dunque che scrivere, come non scrivere, non serve a niente.
Niente serve a niente. Si vive; dopo di che si muore. Se si accettasse questa semplice verità, quanto si sarebbe più umani; quanto si sarebbe più liberi; quanto si sarebbe più distratti verso gli altri e verso di sé.
La più alta forma di misericordia non è l’incessante dedizione a tutto, a tutti; è accogliere senza ansia, senza rancore (anzi: con amore identico per ogni angolo del creato, per ogni creatura) la totale estraneità di tutto a tutto, di tutti a tutti.
Niente serve a niente. Questa è la nostra unica, tragica, enorme occasione di libertà.
(pubblicato su Squadernauti il 5 aprile 2016. Illustrazione originale di Francesca Morini)