Urbanità e coerenza sono considerate virtù. Eppure, esse possono derivare soltanto da una piena accettazione del mondo: se l’urbanità è l’abito esteriore di chi accetta il mondo, la coerenza ne è l’abito interiore.
“Non sai stare al mondo” si dice infatti a chi compie gesti osceni o imprevedibili.
Chi è dotato di uno sguardo senza riparo, senza rimedio, non percepisce che la vita: “Egregio Signor Prezzolini, mi rivolgo a Lei, egregio signore. Io sono un povero diavolo che scrive come sente: Lei forse vorrà ascoltare” (p. 19, lettera a Giuseppe Prezzolini del 6 gennaio 1914).
Chi non accetta i contorni del mondo, le sue regole, naturalmente non sa come comportarsi per ottenere udienza, simpatie, favori: “Caro Papini, leggendo il vostro Lacerba mi sentivo invaso da un senso di rispetto verso l’immortale pedanteria italiana: come maestosa impassibile troneggia nelle vostre truculenze” (p. 16, lettera a Giovanni Papini del maggio 1913).
Un atteggiamento incoerente turba o muove al riso chi sa stare al mondo, eppure esso è l’unico adottabile da parte di chi accoglie la vita ma rifiuta il mondo. Perché la vita non prevede calcoli ma il mondo sì, e la coerenza proviene dal calcolo: “Carissimo signor Cecchi, immaginerà con quanto schifo sono obbligato a ricorrere a questi miserabili succhiatori del miglior sangue d’Italia che si chiamano editori. […] la vita mi è venuta a noia e temo le conseguenze di quest’apatia in cui sono caduto. Non sono un vile e temo che la mia riserva di eroismo sia esaurita […] Lei crede che si potrebbe fare un bel libro coi miei frammenti?” (pp. 43-4, lettera a Emilio Cecchi del 2 maggio 1916).
I rapporti tra coloro che sanno stare al mondo si consumano dunque all’insegna di coerenza e urbanità reciproche, poiché ciascuno occupa un ruolo fisso grazie al quale viene puntualmente riconosciuto (e neutralizzato). Tuttavia, lo stesso non può valere per chi accetta la vita ma rifiuta il mondo: “Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni or sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò” (p. 36, lettera a Giovanni Papini del 23 gennaio 1916); “Così semplicemente ho pensato che vorrà dimenticare le mie miserie e trattarmi amichevolmente in questo momento. Se ci ha un posto nel suo giornale sarei contento di essere vicino a Lei se no mi raccomando che mi trovi qualche cosa altrove” (p. 54, lettera a Giovanni Papini del 21 ottobre 1917).
Dino Campana non ha saputo stare al mondo: “Poi mi sono messo a vivere con una frenesia morbosa, cercando la solitudine nel b. del c. delle p. come immagino facessero i nostri padri romani alla vigilia delle invasioni” (p. 55, lettera ad Aldo Orlandi del 9 novembre 1917).
Dino Campana ha saputo solo vivere: “Caro Carrà, è giunta l’ora. […] Cardarelli ha detto che son marcio e ha ragione. Onde il ridicolo della mia tragedia. Pure per quanto ho potuto mi sono tenuto lontano dal disgustoso e ho lasciato al destino esplicare la sua ferocia. […] Caro Carrà addio addio. Aspetta amico mio, parlami” (p. 57, lettera a Carlo Carrà del 14 dicembre 1917).
(Citazioni ed emozioni tratte dalla lettura di Dino Campana, Al diavolo con le mie gambe, L’orma editore, Roma 2015, a cura di Chiara Di Domenico: un libro piccolissimo e bellissimo).
(pubblicato su Squadernauti il 29 gennaio 2016)