La scrittura, come ogni gesto davvero compiuto, è separazione irrimediabile da una parte di sé. Ogni tentativo di recupero, di riavvicinamento, ne vanifica la compiutezza: “Non ho bisogno di verificare il valore di quello che ho scritto”, p. 57.
Un gesto, poi, è vero solo se modifica il mondo: “Perché l’autore ha scritto questo libro, che non aggiunge niente alla realtà e non muta la percezione delle altre opere?”, p. 60.
O meglio, ogni vero gesto nasce dal desiderio di modificare il mondo: “Gli adulti, invece, hanno perso la bellezza e sono prevedibili, solo i giovani ti sanno sorprendere. Quando cominciano a imparare, sono in grado di arrivare all’estasi, perché studiano per uscire da sé stessi. Non sono ancora prigionieri dell’automatismo della vita. Loro sono ancora potenzialmente tutto. Devono ancora scegliere. Possono ancora scegliere”, (p. 99, corsivo nel testo).
Così dovrebbe essere per ogni opera.
Oppure no, oppure la vera scrittura non è un gesto primigenio, fondativo; al contrario, è sguardo estremo o postumo sul mondo: “Si scrive per evitare il suicidio. […] Non si scrive per guarire, si scrivono versi perché si è già morti, si impugna la penna per uccidere tutte le voci di questo aldilà”, p. 256.
Allora quell’uscire dalle tane non è brama di una luce vivifica, ma del bagliore finale.
(Citazioni e suggestioni tratte da Andrea Temporelli, Tutte le voci di questo aldilà, Guaraldi).
(pubblicato su Squadernauti il 12 gennaio 2016)