Si tratta anche qui di una raccolta di racconti in cui l’insolito, il paradossale, l’impossibile coincidono con la realtà.
Nella prima delle ventuno brevi narrazioni che compongono l’opera, il divertissement Azzurrarsi d’amore, succede che “da sei mesi a questa parte l’accoppiamento ci fa diventare azzurri” (p. 7), con una serie di esilaranti conseguenze, non tutte facilmente immaginabili.
In Severo, ma giusto un critico letterario londinese decide di uccidere uno scrittore al giorno, per un mese filato.
Ne Il giro d’Amazzonia (I) il gusto per l’anomalo e il bizzarro si sgancia da ogni intento umoristico: è riportato il resoconto di un antropologo rimasto per lungo tempo a contatto con la tribù dei kambulé, dediti a scavare buche apparentemente (per l’occhio dell’osservatore esterno) senza motivo: “Mi resta soltanto un’ipotesi: scavare buche è il loro modo di lottare contro il vuoto, un problema metafisico che dopotutto non è così distante dal nostro. Oserei dire che scavano buchi per riempire la vita. […] Del resto i termini si invertono se guardiamo la questione dal punto di vista kambulé: è non scavare, allora, che diventa una stravaganza. Forse ai loro occhi siamo noi che ci lasciamo scappare il sale della vita, l’unica cosa che dà senso a questa effimera esistenza: spalare e spalare, fino a ritrovare, nella terra rimossa, se stessi”, p. 30.
Ne I pazienti del dottor Hampstadt (I), Éliane Laffont perderà a poco a poco la capacità di orientarsi rispetto a ciò che le sta davanti, ma nel contempo acquisirà una sorta di prodigioso sesto senso verso ciò che occupa lo spazio alle sue spalle.
Ne Il giro d’Amazzonia (II) vengono descritti i Tuponi, che vivono “intorno al principio della rinascita quotidiana; come se la vita ricominciasse da zero a ogni risveglio”, p. 75.
Già dalla rassegna di questi primi racconti si può forse intuire come l’inclinazione di Quiriny a narrare vicende che forzano i limiti della plausibilità non sia affatto un compiaciuto esercizio intellettuale. Le realtà di volta in volta esibite non importa quanto siano verosimili: sono realtà alternative alla nostra, ciascuna peraltro sorretta da una ferrea logica interna. Sono, insomma, realtà soltanto inesistenti ma non insensate. Implicitamente, esse palesano proprio la relatività delle nostre coordinate esistenziali, per quanto assunte come incrollabili (e univoche). Le cose, pare dirci Bernard Quiriny, succedono in questo modo e in nessun altro per puro caso, e ciò sarebbe sufficiente per impedirci di celebrare qualsivoglia supposto primato.
Inoltre, la piana e godibilissima scrittura di Quiriny, attraversata sovente da una garbata ironia, tiene al riparo Storie assassine da ogni rischio di moralismo.
Ecco allora che I pazienti del dottor Hampstadt (III) può fungere da paradigma dell’intera raccolta. Christiane D. è affetta da una singolare patologia: non riesce a mettere in relazione gli aspetti fisici con i nomi. “Forse per interpretare meglio il caso di Christiane sarebbe utile guardare il fenomeno nel suo complesso, forse la sua incapacità di distinguerci è un modo di riconoscere la qualità risibile e vacua delle nostre vite”, p. 165.
E così, nel terzultimo racconto, l’autore arriva a sbeffeggiare una delle questioni che da sempre maggiormente coinvolgono, e ossessionano, l’umanità: ne Il giro d’Amazzonia (IV) veniamo a conoscenza dei Bekamì, secondo i quali “non c’è niente di più buffo dell’amore fisico, dello spettacolo di due corpi umani allacciati. Per loro la sessualità è una cosa comica. Non possono fare a meno di riderne. Non dico che il sesso non affascini i Bekamì, e non li attiri; solo che non lo ammettono e, quando si tratta di fornicare, ridono. Anche il solo fatto di essere nudi li fa pensare alla cosa, e allora via a ridere”, pp. 178-9.
Storie assassine, in fondo, raccoglie ventuno benefiche risate contro la presunzione umana.
(pubblicato su Squadernauti l’8 gennaio 2016)