Sul soffitto

Un signore vestito completamente di grigio, con una sedia rovesciata sulla testa a mo’ di cappello: ecco il personaggio principale di Sul soffitto, romanzo di Éric Chevillard pubblicato nell’ottobre del 2015 da Del Vecchio (traduzione di Gianmaria Finardi).

La bizzarra decisione viene presa dal protagonista bambino, incapace di accettare l’idea secondo cui al mondo si può aderire solo frontalmente, per mezzo di un’incessante esibizione delle proprie caratteristiche fisiche e comportamentali: “Quando ero fatto oggetto dell’attenzione generale, mi sentivo strappato a me stesso, aspirato, svuotato di ogni sostanza, appartenevo a quel fascio di sguardi la cui sola convergenza attestava la mia presenza in questo mondo: quegli occhi posati su di me erano tutto ciò che restava della mia carne vivente, la mia stessa coscienza si confondeva esattamente con la somma delle impressioni e dei giudizi che ispiravo in quel momento”, p. 11.

Coraggioso manifesto contro l’umana presunzione di istituire continue dicotomie tra giusto e sbagliato, tra normale e anormale, Sul soffitto trae la sua forza dall’assenza di stupore nei confronti di ciò che dovrebbe essere considerato abnorme. Voglio dire che persino le situazioni più strampalate sono restituite con uno stile sì vivacissimo, ma che non indulge mai al barocco né al grottesco né allo sperimentale, insomma a nessun artificio formale che somiglierebbe già a un giudizio, a una distanza critica dalle vicende narrate.

Si legga ad esempio il passaggio che descrive un ambizioso progetto dell’artista Kolski, uno degli insoliti amici del protagonista (corsivo nel testo): “Kolski non si lavava più, fermamente deciso a non ostacolare quello slancio, curioso di vedere fin dove lo avrebbe portato – e che l’odore dell’uomo, libero di infittirsi, di estendersi, di svilupparsi nello spazio, si rivelasse piuttosto sgradevole, e persino soffocante, non gli dava fastidio, al contrario sperava che esso sarebbe presto stato abbastanza denso, compatto, solido, perché le sue mani da scultore potessero farne qualcosa. Pensava già a un’opera colorita, leggera, indistruttibile, che avrebbe chiamato La primavera”, p. 39.

Un espediente stilistico che Éric Chevillard adopera con larghezza e maestria è semmai la dilatazione anomala di incisi e parentetiche, come a testimoniare un’esistenza non governata da una stringente causalità ma costituita piuttosto da avvenimenti autonomi e irrelati, di cui sono sempre imprevedibili sviluppo ed esito.

L’autore, inoltre, non perde occasione per mettere in discussione i concetti di ammissibile e inammissibile, lecito e illecito, lodevole e deprecabile. Ad esempio, l’atipico copricapo del protagonista, che muove ora il riso ora la compassione, dà modo a Chevillard di esprimere una considerazione acuta (e beffarda) su un sentimento unanimemente considerato virtuoso: “La pietà non è mai altro che una maniera di credersi al riparo dalla pietà o, in modo ancor più vizioso, è una forma deviata dell’invidia”, p. 15.

Altrove è il protagonista che, quasi svagatamente, fa affermazioni o ragionamenti che ribaltano il supposto buon senso: “Non che io abbia dei gran principi, mi sforzo sempre di pensare liberamente e di rispettare le scelte di tutti, ma non posso impedirmi di sussultare quando incrocio una persona che non porta una sedia rovesciata sulla testa, vengo toccato in qualcosa di profondo e questo qualcosa, devo confessarlo – se il mio senso del gusto e dell’equilibrio armonioso delle masse ne risulta scosso -, è di ordine morale”, p. 17.

Per tornare alla trama del romanzo, un bel giorno il protagonista e i suoi sodali decideranno di insediarsi, né più né meno, sul soffitto di casa della famiglia dell’amata Méline.

Come fanno a stare sul soffitto?, La famiglia li accetta senza dire niente?, sono domande che non dovrebbero interessarci, a meno che non apparteniamo alla categoria di chi crede/ che la realtà sia quella che si vede, proprio come Louis-René Raffin, padre di Méline, il quale chiederà loro: “Ma come fate a non cadere?”, p. 95.

Anche perché l’occupazione del soffitto di casa Raffin pone questioni filosoficamente ben più profonde. Succede infatti che la sedia del protagonista, sino ad allora garanzia di riparo e di lievità, mostri adesso tutto il suo ingombro. Come se una raggiunta stabilità, per quanto eccentrica, sia pur sempre sinonimo di conquista, di presa di potere, con un’inevitabile ricaduta in termini di pesantezza sull’universo: “La sedia a cui mi aggrappavo da sempre, la mia unica protezione, il mio unico sostegno, il fondamento stesso del mio essere, per la prima volta nella mia vita, la mia sedia era per me un fastidio: le sue gambe urtavano i mobili della camera, una mensola vacillò; a più riprese, dovetti accosciarmi sul soffitto per non ferire Méline di sotto”, p. 79.

La nuova condizione dei personaggi, poi, fa correre loro un rischio: quello di essere sfruttati (giacché non è possibile imporre alcuna forma di dominio su ciò che ha caratteristiche volatili, sfuggenti alle definizioni). “Ora, nella testa di Louis-René Raffin, il popolamento dei soffitti non saprebbe significare altro che la creazione di un nuovo mercato, un nuovo mercato succulento, secondo lui, che crede che ci manchi tutto. Sospetto che voglia trarre profitto dalla sua fortuna, dal momento che per combinazione la conquista dei soffitti è cominciata da casa sua, intende di certo assicurarsi la nostra clientela e strappare i primi contatti”, p. 110.

Ma il rischio più grande, una volta assunta una posizione stabile e sicura, è quello di disinnescare ogni fecondo attrito col reale, di uniformarsi alla cosiddetta normalità, sino a diventare invisibili: “Badano [i Raffin, n.d.r.] alle loro occupazioni quotidiane, cronometrate, le loro distrazioni sono le abitudini a cui tengono di più. La nostra presenza non li disturba più”, p. 124.

 

(pubblicato su Squadernauti il 24 novembre 2015)

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