E in altre due missive: “Mio caro Louis, siete troppo lontano, troppo assente, troppo invisibile, inaudibile, inconcepibile”, p. 43; “voi siete tanto perfidamente lontano”, p. 89.
Scrive Stevenson a James: “Mio caro James, sì, lo confesso, sono infedele all’amicizia e (meno grave, ma comunque importante) alla civiltà”, p. 46.
E altrove: “Mi trovo in uno di quegli stati d’animo in cui ci si chiede come si possa essere talmente asini da abbracciare la professione delle lettere anziché imparare a fare il barbiere o mettere su un baracchino di patate arrosto”, p. 111.
Allora scrivere, per James, significa essere riconosciuti, affermarsi in virtù di una preminenza. Intollerabili la svagatezza, l’incuria, l’allontanamento, specie da parte di chi avrebbe gli strumenti per imporre la propria voce, il proprio magistero, il proprio potere.
Invece per Stevenson scrivere è proprio allontanarsi, abbandonare la presa sul mondo, moltiplicare i possibili per dissacrare l’univocità in cui si è costretti.
Ecco perché le sue continue, e ben note, fughe nello spazio.
E nel tempo: nei territori dell’infanzia, come testimoniano i suoi capolavori; o anche solo fughe all’indietro di un paio d’anni, per via di un curioso errore (lapsus?) prontamente rimarcato da James: “Mio caro lontano Louis, l’arrivo del vostro rassicurante messaggio del 5 dicembre (non 1891, mio caro isolano senza più cognizione del tempo: è invidiabile vedervi tanto impudentemente «distratto». Quando vi concedete l’eccentricità di una data, lo fate in modo davvero eccentrico), è la cosa più splendida che mi sia accaduta in un anno”, p. 88.
(Citazioni tratte da Amici rivali. Lettere 1884-1894, di Henry James e Robert Louis Stevenson, Archinto, Milano 2003, traduzione di Lucio Angelini, prefazione di Guido Almansi).
(pubblicato su Squadernauti il 2 ottobre 2015)