Partiamo dalla trama. Suddiviso in quattordici capitoli e un epilogo non ordinati cronologicamente, Le cose inutili abbraccia un periodo di tempo che va dal 2014 al 2020 e ci racconta del fallimentare matrimonio tra Irene Abbandando e Vlado Merletti, milionario alcolizzato. Irene Abbandando, che si innamorerà dello studente Antonio, inventerà un indumento intimo di successo internazionale: le mutandem, ossia le mutande da indossare in coppia, disponibili in una gamma di modelli dall’ampiezza davvero sorprendente; dal canto suo, Vlado Merletti non darà più notizia di sé, se non inviando periodicamente ai due compagni di bevute – Gioio e Amando – lettere contenenti dettagliati resoconti della sua ricerca, in giro per il mondo, di oggetti decontestualizzati.
Già i nomi dei personaggi, le loro occupazioni e i loro destini appaiono svincolati dai criteri minimi di plausibilità; la trama, dunque, come intreccio di esistenze così votate all’assurdo, non avrebbe potuto che rivelarsi un continuo nonsenso.
E la forma? Ne Le cose inutili i giochi linguistici prendono spesso il sopravvento sugli avvenimenti narrati, quasi che lo stesso Carlo Sperduti, al pari di Vlado Merletti e degli altri protagonisti del libro, patisse una sorta di sindrome da evasione dalla realtà: se essi tendono a sbalzare fuori dall’ambito della logica, egli è incline a smarrirsi nelle infinite possibilità di sofisticazione di significati e significanti, come mostrano – rispettivamente – questi due esempi: “Si trattava della stessa calca che Irene pareva invece penetrare con la stessa facilità con cui la penetrava”, p. 101; “Parigi! Città dalle mille sfaccettature e dai tanti accenti sull’ultima sillaba, in cui il rapporto col prossimo si fa talvolta difficile, insidioso, e la conversazione langue: française”, p. 60.
Sperduti, inoltre, ci offre alcune inedite e gustose contrazioni semantiche: giacché la pavimentazione del Baranoia, il locale frequentato da Merletti, è composta da piastrelle ottagonali di cotto, all’autore verrà spontaneo chiamarle “cottagoni” (p. 10).
Tuttavia, più sovente l’effetto comico è assicurato dall’opposto procedimento della dilatazione, come se lo sviluppo narrativo si fermasse a specchiarsi e rimanesse incantato da se stesso: “i bicchieri erano diventati senza alcuna opposizione sette, poi otto, poi sòtto, poi ètte, finché Vlado si era convinto che al settimo fosse seguito l’ottimo e che in ciò non ci fosse nulla di male”, p. 42; “La scena si svolge il mattino successivo ai fatti della serata precedente al mattino successivo”, p. 54.
Si sospetta che altrove il gioco sia meno innocente. Carlo Sperduti, cioè, in alcuni luoghi del testo sembra volersi prendere gioco dell’attitudine autoriale all’invadenza: “- Se – incominciò – signora – continuò – Linda – nominò – si potesse tirar fuori un tavolo da qualche parte”, p. 11.
Eppure il valore de Le cose inutili non risiede solo in questa sorta di palazzeschiano lasciateci divertire. Il libro, sin dall’emblematico titolo, somiglia piuttosto a una netta presa di distanza da ogni pianificazione esistenziale, a favore semmai dell’aspetto estemporaneo, imprevedibile e ludico dei fatti che compongono la vita.
Tale esaltazione del versante non addomesticabile dell’esistenza pare scaturire da una convinzione, implicitamente ribadita in tutte le pagine dell’opera: mettere in relazione tra loro le cose del mondo è puro sfizio intellettuale, senza riscontri (se non casuali) nella realtà. Ne Le cose inutili, infatti, l’intelligenza subisce uno scacco ogni qual volta venga utilizzata per ottenere un qualche successo o anche solo per preservarsi dal fallimento; ma riacquista connotazione positiva se preparatoria di azioni fine a se stesse (dal calembour alla decisione eccentrica), insomma quando essa diventa – paradossalmente – demolitrice e non produttrice di senso.
In conclusione si può affermare che Le cose inutili è un piccolo inno al gesto non premeditato, all’istinto, al corpo: e se affidarsi all’istinto è l’unico modo per aderire al ritmo del mondo senza la sciocca presunzione di dominarlo, va ricordato che i veri rischi è sempre il corpo a correrli, mai il ragionamento.
(pubblicato su Squadernauti il 21 luglio 2015)