Per primo ci si masturbò Aurelio.
Tre sole volte. Una quando sua moglie Elsa era incinta di Giovanni. Aurelio amava Elsa ma si sentiva troppo giovane, gli era venuta la fissa di non essere pronto a fare il padre. Un pomeriggio rientrò dal lavoro che Elsa non era in casa, aveva una visita ginecologica. Gli continuava a venire in mente una ragazza, più giovane di sua moglie, incrociata all’altezza della pescheria. Era incinta anche lei. Aurelio aveva sempre pensato alla gravidanza di Elsa come a qualcosa di tenero e complicato. Invece questa ragazza era bella, bellissima. Esprimeva una forza, una verità. E gli aveva sorriso in un modo. Aurelio si masturbò nel ripostiglio tra la sala e la cucina. Scelse quella stanza perché aveva un finestrino a vasistas che dava sulla strada, così da permettergli di sbirciare l’eventuale arrivo di Elsa.
Uomo d’altri tempi, Aurelio si portò addosso per quindici anni l’imbarazzo del suo gesto. Poi, dopo tutto quel tempo, non riuscì a resistere e ci si masturbò una seconda volta, convinto di avere rivisto la ragazza della pescheria. L’aspetto fisico e l’età (sua e del figlio che le camminava svogliatamente di fianco) combaciavano. Era una domenica mattina, Elsa era andata a messa con Giovanni. Mentre Aurelio si masturbava e lanciava occhiate dal finestrino, la sua fantasia eccitata restituì alla donna quelle impressioni di forza e di verità che no, non ne accompagnavano più la bellezza.
La terza volta ci si masturbò ormai anziano, alla fine del pranzo di Natale in cui annunciò a Giovanni e a sua moglie Magda, incinta di otto mesi, che visti i recenti problemi lavorativi (Magda licenziata, Giovanni in cassa integrazione) avrebbero potuto stabilirsi da loro. Quella volta ci si masturbò in meno di due minuti, digrignando i denti, per calmarsi o forse per sfinirsi del tutto.
Era un giorno d’estate, Elsa aveva quarant’anni. Entrata nel ripostiglio a prendere un barattolo di passata di pomodoro, aveva percepito uno strano odore. Un sentore dolce, quasi rancido, tra il cuoio e il sudore maschile. Un effluvio buonissimo e atroce, che non riusciva a capire da dove provenisse. Se lo sentiva, quell’odore, sulla pelle nuda degli avambracci, del collo, in bocca. Non ci si masturbò propriamente, ma lasciò che gli angoli degli scatoloni nei quali avevano imballato i primi giochi di Giovanni le sfiorassero il cotone della maglietta, dei pantaloni della tuta. Stava per uscire dal ripostiglio ma arrivata alla porta, sudata alla fronte e con la gola secca, le venne da voltarsi. Gli occhi le si fermarono sull’angolo alto dello scatolone più grande, che puntava verso di lei. Tornò indietro. Si abbassò i pantaloni della tuta, si voltò di schiena allo scatolone, dilatò le natiche, si strusciò contro l’angolo, pensò confusamente a volti di uomini: il lattaio, il capotreno, due passanti visti il giorno prima, il prete, il chierichetto, Gesù. Si risollevò i pantaloni della tuta, ne annodò la stringa, uscì dal ripostiglio sbandando.
Anche Giovanni ci si masturbò, per trentacinque anni e almeno una volta alla settimana, aiutandosi con le modelle di Postalmarket. I numeri della rivista, collezionati da sua madre non si sapeva per quale motivo, prendevano ormai mezza parete per tutta la lunghezza: cinque file di scaffalatura. Il fatto è che Giovanni, quando raggiungeva l’orgasmo, gridava come un disperato, motivo per cui sua moglie Magda restò per anni col dubbio di non piacergli, salvo poi finire per convincersi che si trattasse di un segnale di omosessualità repressa. Perché nessuno lo sentisse gridare, se Giovanni decideva di masturbarsi quando non era solo in casa, entrava nel ripostiglio con un fazzolettone di stoffa, che piegava in quattro e mordeva al momento opportuno. Una sera dimenticò di portarsi il fazzoletto, e dovette poi spiegare a Beatrice, la figlia maggiore rimasta in cucina a fare i compiti, che gli era caduta una latta di impregnante sull’alluce.
Giovanni smise di masturbarsi il giorno della morte di sua madre.
Magda ci si masturbò sovente e con gusto: le piaceva godere da sola, in quel luogo insolito, senza sottostare ai ritmi di Giovanni e a quel suo gridare. Nel mese di passaggio (cioè quello da cui Magda uscì persuasa dell’omosessualità del marito) lo tradì per undici volte col commesso della drogheria e moltiplicò la frequenza dell’autoerotismo.
Ci si masturbò pure Beatrice, spesso penetrandosi con piccoli oggetti (lo spazzolino da denti, il portachiavi con la pila, la penna d’argento regalatale per la prima comunione). Preferiva il ripostiglio al bagno, troppo luminoso, e alla cameretta, che le toccava dividere con sua sorella Federica.
Un sabato prima di cena, come aveva fatto a non sentire i passi?, si aprì la porta e suo padre spuntò nel ripostiglio con un fazzoletto in mano. Era sicura, Beatrice, di essere riuscita a dargli le spalle, abbottonarsi i jeans e nascondere la penna in tasca senza farlo insospettire, eppure a cena Giovanni era una premura continua (altri due fusilli?, domani cinema tutti assieme?, devo mica venirti a prenderti in discoteca?), come se Beatrice fosse appena guarita da chissà che malattia.
Provò a masturbarcisi anche Federica. Il suo nuovo fidanzato, Nicola, le aveva inviato un video porno sullo smartphone. Andavano tutt’e due al terzo anno di liceo scientifico. Federica si infilò nel ripostiglio perché il resto della casa era ormai vuota, e sua sorella, papà e mamma da dieci minuti facevano avanti e indietro per controllare di non essersi dimenticati proprio niente. Doveva sbrigarsi. Le giravano in testa le parole di Nicola, sussurrate con la voce che si rompeva: vediamo se dopo che vedi tutti questi cazzi nella fica e nel culo non ti senti troia, anzi, fammi uno squillo quando lo guardi, così ti immagino che godi e mi sparo una sega.
Guardò col cuore in gola, Federica, aveva caldo e desiderava Nicola, si tastò la nuca, le labbra, un seno, ma quegli arnesi in erezione le sembravano esageratamente grandi rispetto al paio che aveva visto dal vivo, e poi papà aveva già strombazzato cinque o sei volte, stavano tutti aspettando lei, dovevano andare, abbandonare la casa, era il gran giorno, il giorno del trasferimento dall’altra parte della città, basta, impossibile concentrarsi, allora Federica sbuffò da un lato della bocca, si mise la borsa in spalla, recuperò il suo solito broncio e uscì, ultima, dal ripostiglio.
Tre sole volte. Una quando sua moglie Elsa era incinta di Giovanni. Aurelio amava Elsa ma si sentiva troppo giovane, gli era venuta la fissa di non essere pronto a fare il padre. Un pomeriggio rientrò dal lavoro che Elsa non era in casa, aveva una visita ginecologica. Gli continuava a venire in mente una ragazza, più giovane di sua moglie, incrociata all’altezza della pescheria. Era incinta anche lei. Aurelio aveva sempre pensato alla gravidanza di Elsa come a qualcosa di tenero e complicato. Invece questa ragazza era bella, bellissima. Esprimeva una forza, una verità. E gli aveva sorriso in un modo. Aurelio si masturbò nel ripostiglio tra la sala e la cucina. Scelse quella stanza perché aveva un finestrino a vasistas che dava sulla strada, così da permettergli di sbirciare l’eventuale arrivo di Elsa.
Uomo d’altri tempi, Aurelio si portò addosso per quindici anni l’imbarazzo del suo gesto. Poi, dopo tutto quel tempo, non riuscì a resistere e ci si masturbò una seconda volta, convinto di avere rivisto la ragazza della pescheria. L’aspetto fisico e l’età (sua e del figlio che le camminava svogliatamente di fianco) combaciavano. Era una domenica mattina, Elsa era andata a messa con Giovanni. Mentre Aurelio si masturbava e lanciava occhiate dal finestrino, la sua fantasia eccitata restituì alla donna quelle impressioni di forza e di verità che no, non ne accompagnavano più la bellezza.
La terza volta ci si masturbò ormai anziano, alla fine del pranzo di Natale in cui annunciò a Giovanni e a sua moglie Magda, incinta di otto mesi, che visti i recenti problemi lavorativi (Magda licenziata, Giovanni in cassa integrazione) avrebbero potuto stabilirsi da loro. Quella volta ci si masturbò in meno di due minuti, digrignando i denti, per calmarsi o forse per sfinirsi del tutto.
Era un giorno d’estate, Elsa aveva quarant’anni. Entrata nel ripostiglio a prendere un barattolo di passata di pomodoro, aveva percepito uno strano odore. Un sentore dolce, quasi rancido, tra il cuoio e il sudore maschile. Un effluvio buonissimo e atroce, che non riusciva a capire da dove provenisse. Se lo sentiva, quell’odore, sulla pelle nuda degli avambracci, del collo, in bocca. Non ci si masturbò propriamente, ma lasciò che gli angoli degli scatoloni nei quali avevano imballato i primi giochi di Giovanni le sfiorassero il cotone della maglietta, dei pantaloni della tuta. Stava per uscire dal ripostiglio ma arrivata alla porta, sudata alla fronte e con la gola secca, le venne da voltarsi. Gli occhi le si fermarono sull’angolo alto dello scatolone più grande, che puntava verso di lei. Tornò indietro. Si abbassò i pantaloni della tuta, si voltò di schiena allo scatolone, dilatò le natiche, si strusciò contro l’angolo, pensò confusamente a volti di uomini: il lattaio, il capotreno, due passanti visti il giorno prima, il prete, il chierichetto, Gesù. Si risollevò i pantaloni della tuta, ne annodò la stringa, uscì dal ripostiglio sbandando.
Anche Giovanni ci si masturbò, per trentacinque anni e almeno una volta alla settimana, aiutandosi con le modelle di Postalmarket. I numeri della rivista, collezionati da sua madre non si sapeva per quale motivo, prendevano ormai mezza parete per tutta la lunghezza: cinque file di scaffalatura. Il fatto è che Giovanni, quando raggiungeva l’orgasmo, gridava come un disperato, motivo per cui sua moglie Magda restò per anni col dubbio di non piacergli, salvo poi finire per convincersi che si trattasse di un segnale di omosessualità repressa. Perché nessuno lo sentisse gridare, se Giovanni decideva di masturbarsi quando non era solo in casa, entrava nel ripostiglio con un fazzolettone di stoffa, che piegava in quattro e mordeva al momento opportuno. Una sera dimenticò di portarsi il fazzoletto, e dovette poi spiegare a Beatrice, la figlia maggiore rimasta in cucina a fare i compiti, che gli era caduta una latta di impregnante sull’alluce.
Giovanni smise di masturbarsi il giorno della morte di sua madre.
Magda ci si masturbò sovente e con gusto: le piaceva godere da sola, in quel luogo insolito, senza sottostare ai ritmi di Giovanni e a quel suo gridare. Nel mese di passaggio (cioè quello da cui Magda uscì persuasa dell’omosessualità del marito) lo tradì per undici volte col commesso della drogheria e moltiplicò la frequenza dell’autoerotismo.
Ci si masturbò pure Beatrice, spesso penetrandosi con piccoli oggetti (lo spazzolino da denti, il portachiavi con la pila, la penna d’argento regalatale per la prima comunione). Preferiva il ripostiglio al bagno, troppo luminoso, e alla cameretta, che le toccava dividere con sua sorella Federica.
Un sabato prima di cena, come aveva fatto a non sentire i passi?, si aprì la porta e suo padre spuntò nel ripostiglio con un fazzoletto in mano. Era sicura, Beatrice, di essere riuscita a dargli le spalle, abbottonarsi i jeans e nascondere la penna in tasca senza farlo insospettire, eppure a cena Giovanni era una premura continua (altri due fusilli?, domani cinema tutti assieme?, devo mica venirti a prenderti in discoteca?), come se Beatrice fosse appena guarita da chissà che malattia.
Provò a masturbarcisi anche Federica. Il suo nuovo fidanzato, Nicola, le aveva inviato un video porno sullo smartphone. Andavano tutt’e due al terzo anno di liceo scientifico. Federica si infilò nel ripostiglio perché il resto della casa era ormai vuota, e sua sorella, papà e mamma da dieci minuti facevano avanti e indietro per controllare di non essersi dimenticati proprio niente. Doveva sbrigarsi. Le giravano in testa le parole di Nicola, sussurrate con la voce che si rompeva: vediamo se dopo che vedi tutti questi cazzi nella fica e nel culo non ti senti troia, anzi, fammi uno squillo quando lo guardi, così ti immagino che godi e mi sparo una sega.
Guardò col cuore in gola, Federica, aveva caldo e desiderava Nicola, si tastò la nuca, le labbra, un seno, ma quegli arnesi in erezione le sembravano esageratamente grandi rispetto al paio che aveva visto dal vivo, e poi papà aveva già strombazzato cinque o sei volte, stavano tutti aspettando lei, dovevano andare, abbandonare la casa, era il gran giorno, il giorno del trasferimento dall’altra parte della città, basta, impossibile concentrarsi, allora Federica sbuffò da un lato della bocca, si mise la borsa in spalla, recuperò il suo solito broncio e uscì, ultima, dal ripostiglio.
(pubblicato su Cadillac numero 8, giugno 2015)