C’è un punto, nella vita di ciascuno, in cui si produce uno scollamento: il presente evapora e restano un passato irrimediabilmente lontano e uno sguardo da un futuro incollocabile, fuori dal tempo: “Era una coppia felice fino a quel momento. Ancora ragazzo, lui adorava teneramente la sua mogliettina. Pallido, spigoloso, con un sano sguardo rurale, si potrebbe dire vegetale, e l’aria impietrita in un atteggiamento energico. […] Era agricoltore. Era un bravo contadino, più che altro un anonimo paesano di campagna. Adelaida era una dolce meticcia, sorridente, piagnona, felice nel suo recente ruolo di sposa, pura e amorevole verso il suo uomo diletto”, pp. 9-10.
Nel presente svuotato di senso, ciò che rimane (cioè tutto) diventa oscuro: “Nei giorni di gennaio in cui si scatenava un acquazzone o una terribile grandinata, quando i campi neri e già arati assomigliavano a enormi drappi funebri sgualciti, con grandi pieghe capricciose, o strappati ed esposti al vento, le sue inquietudini diventavano un boccone amaro”, pp. 27-28.
Perché quando in un’esistenza avviene l’irreparabile, la prospettiva non è più quella della vita bensì quella della morte. La vita diventa un passato irrimediabilmente lontano; e lo sguardo da un futuro incollocabile, fuori dal tempo è lo sguardo della morte: “Una volta nella casa in paese, Balta la fece vestire rigorosamente a lutto; e lui fece lo stesso. Lei ubbidiva, continuando a piangere. Una luce fredda e arancione di candela illuminava e accarezzava con infausta angoscia i bianchi muri grezzi, gli oggetti, i mattoni dell’abitazione. Fuori, la notte era sempre nera e deserta”, p. 51.
(Citazioni e suggestioni tratte da Favola selvaggia di César Vallejo, Edizioni Arcoiris, traduzione di Raul Schenardi, postfazione di Silvana Serafin).
(pubblicato su Squadernauti l’11 maggio 2015)