Elena Ferrante è una scrittrice eccellente e l’ultimo suo romanzo, Storia della bambina perduta (edizioni e/o), mi è piaciuto meno degli altri. Perché sono convinto che durante la stesura la Ferrante abbia non solo captato ma anche – e per la prima volta – assorbito le lodi dei lettori, peraltro sempre più ampie e unanimi. Nel suo ultimo romanzo, non so dire meglio, sento che la Ferrante si è come svegliata, ha guardato il mondo, ha immaginato (magari per un istante appena, ma chissà cosa può smuovere anche solo una fugace immaginazione) di scrivere come il pubblico vorrebbe che lei scrivesse.
E così Elena, Lila e gli altri personaggi della quadrilogia L’amica geniale, in Storia della bambina perduta sono diventati mitici (nella doppia accezione del termine, classica e giovanilistica). Hanno attraversato queste ultime loro pagine non tanto vivendo, quanto ragionando sulla propria vita, sforzandosi di mostrare ai lettori un’esistenza emblematica.
Forse non è sufficiente, per uno scrittore, celare l’identità o scegliere l’anonimato. Forse un’opera dovrebbe farsi nell’isolamento assoluto, senza che mai l’autore sappia cosa ne pensi anche una sola persona.
Forse un dono è davvero gratuito solamente se non si azzarda mai alcuna ipotesi sulle possibili reazioni di chi lo riceverà, ma si rimane concentrati sulla sua fattura e sulla necessità di consegnarlo.
Forse il dono, allora, è un movimento massimamente egoistico, eppure è l’unico modo di entrare in relazione col prossimo senza violarlo o senza esserne violati.
(pubblicato su Squadernauti il 6 marzo 2015)