Il sogno della tigre e altri ritorni

Sono narrazioni piene di ritmo, sangue e mistero, i quattordici racconti che compongono Il sogno della tigre e altri ritorni di Rosalba Campra (uscito nel novembre 2014 per le Edizioni Arcoiris, nella traduzione di Francesco Fava e con una postfazione di Tununa Mercado).

I titoli delle due sezioni, che comprendono sette racconti ciascuna, sono allo stesso tempo evocativi e felicemente fuorvianti: Storie di prigionia e Storie d’amore.

Dico felicemente fuorvianti ma avrei potuto dire interscambiabili, giacché nella prima metà dell’opera la condizione o la sensazione di prigionia non sono mai disgiunte dal sentimento o anche solo dal fantasma dell’amore (ed è spesso, infatti, prigionia autoinflitta); viceversa, nella seconda metà l’amore è sempre minacciato dalla distanza, dall’ossessività, dalla catastrofe.

Consideriamo brevemente alcuni racconti esemplari di ciascuna delle due parti.

Apre la raccolta, e la sezione Storie di prigionia, lo splendido Il sogno della tigre, che fin dalle battute iniziali testimonia il talento raro dell’autrice nel creare – come dal nulla – una storia densa nel contempo di materia e di desiderio (corsivi nel testo): “Come una decisione apparentemente senza importanza può cambiare la vita. […] Nel mio caso, tutto dipese dall’avere accettato un invito a cena a casa di alcuni amici. Appena arrivai si scusarono perché ci sarebbe stato un altro invitato, non previsto, un sudamericano che aspettavano per alcuni giorni dopo ma che aveva anticipato la sua visita. Ci presentarono, lui disse Enchanté nello stesso istante in cui io dicevo Encantada, scoppiammo a ridere e ci innamorammo”, p. 9.

I due andranno a vivere a Buenos Aires, nella villa che fu della nonna di lui, le cui gallerie del giardino sono chiuse da inferriate perché l’abitazione, quando la nonna era ancora in vita, era minacciata dalle tigri.

Eppure proprio la narratrice e protagonista riuscirà più volte, segretamente, a farsi avvicinare da una tigre, in una dimensione sospesa tra realtà e immaginazione, e riferendosi all’animale finirà per dire: “Il suo sogno e il mio sono lo stesso sogno”, p. 20.

In Incontro, la comune passione per i ragni fungerà da legame erotico tra i due protagonisti. Lei scoprirà nel taxi guidato da lui un esemplare di Pisaura mirabilis; la voglia di lei di rivedere l’animale (e di mostrare al tassista la propria collezione di ragni) alimenterà un desiderio sessuale sempre crescente, sino all’inattesa dichiarazione finale: “So che prima o poi uno dei due, mentre l’altro dorme, prenderà la gabbietta, la poserà all’altezza del cuore di quello che sta dormendo, e aprirà la porta. Lo sappiamo entrambi, ma dormiamo lo stesso”, pp. 26-27.

In Cicatrici l’io narrante è stavolta maschile. Egli vivrà una passione amorosa con una donna che subito dirà di chiamarsi Natalia (e che gli ricorderà un’altra donna conosciuta e amata anni addietro), ma poi affermerà: “Non mi chiamo Natalia e non somiglio a quella donna” (p. 45); nel corto circuito finale – dove il lettore non saprà più se sia la donna di oggi o quella di ieri a chiamarsi Natalia, né cosa appartenga all’uno o all’altro piano temporale – avverrà una sorta di fusione mostruosa: “Al posto di uno dei due seni le spuntava una mano e aveva le unghie dipinte di viola, come quelle di Natalia” (p. 46).

Passando alla sezione Storie d’amore, il racconto Promesse contiene una sorta di ribaltamento della leggenda di Faust e Mefistofele. In un cimitero di monache sono state piantate delle croci, ciascuna delle quali ha la funzione di tenere inchiodato un diavolo. Una donna stipulerà un patto con Gesù Cristo affinché la croce che trafigge il diavolo di cui si era innamorata sia divelta dal suolo; in cambio, lei consegnerà a Gesù la propria anima.

“Io non posso dire che le cose siano andate esattamente così, però il foglietto con la firma esiste e lo si può vedere nel museo del paesino di San Isidro, che è dove accadde questa storia”, p. 98.

Una tensione ininterrotta attraversa il racconto La tormenta. Uno sposo attende una sposa fuori da una piccola chiesa campestre. La sposa tarda ad arrivare, mentre accadono piccoli fatti che concorrono a creare una certa inquietudine: “la polvere aveva cominciato a sollevarsi” (p. 113); “Lo sposo raggiunse di nuovo la strada e si mise a parlare con la ragazza dalle piume nere. Parlavano a bassa voce senza muoversi, fin quando lui non le toccò un braccio e allora lei fece un passo indietro, alzò le mani molto lentamente e si tolse il cappello. Di colpo tutti ammutolirono” (ibid.); “Il cielo si era fatto scuro, c’era aria di tormenta” (p. 114).

Finché “alla fine la diga cedette e la sposa cominciò ad avanzare trasportata dalla gente che la circondava, che la sollevava come la spuma di un’onda, sempre più in alto e più leggera e più vicina all’ingresso, e lei lanciò un grido quando l’onda la ricoprì, o forse non fu lei, perché i fiori d’arancio non si vedevano più, ma non si distinguevano nemmeno i vestiti colorati delle altre invitate, soltanto un vortice ansimante nell’atrio, illuminato appena dai lampi che sembravano provenire dall’interno della chiesa”, pp.115-116.

Nei racconti di Rosalba Campra – ecco la sua migliore caratteristica di scrittrice – scorre la vita, tutta la vita: senza censure, senza arbitrarie dicotomie tra il giusto e lo sbagliato (dunque senza giudizi), senza segnali che esplicitino il confine tra presente e passato, verità e sogno, possibile e impossibile.

Qui, davvero, la scrittura si fa sguardo assoluto sul mondo.

 

(pubblicato su Squadernauti il 27 febbraio 2015)

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