Il testo, breve ma assai denso e sfaccettato, procede più per intuizioni folgoranti che non con piana consequenzialità; perciò la scelta di chi scrive è stata quella di isolare una serie di citazioni che compongono un ragionamento organico, stimolo per una considerazione finale.
Zygmunt Bauman istituisce un persuasivo parallelismo tra la specificità della religione ebraica e la specificità psicologica degli ebrei (qui e negli stralci seguenti, corsivo nel testo): “L’attesa del Messia è sempre stata parte essenziale della coscienza ebraica. Il prezzo di questa attesa è stata la provvisorietà endemica della storia ebraica. […] La vita ebraica era una vita vissuta nella procrastinazione”, p. 11; specificità psicologica che si traduce dunque in una condizione di perenne precarietà sociale.
E proprio la specificità ebraica ci conduce alla seconda intuizione di Bauman: se “la modernità prometteva di spogliare tutti della loro mentalità provinciale e di liberarli riducendoli a pura essenza umana” (p. 14) allora “la specificità era un nemico dell’emancipazione, quindi il regno dell’universalità poteva essere raggiunto solo al prezzo dell’annientamento dell’ebraismo: la più specifica delle specificità; la specificità in quanto tale” (ibid.).
Ma come avrebbe dovuto comportarsi chi – ebreo della modernità – avesse voluto aspirare a questa universalità? Bauman ci ricorda che “L’emancipazione legale degli ebrei occidentali avvenne all’apice dell’Illuminismo […] La linea di demarcazione tra il bene e il male era tracciata in modo assai deciso nella sfera dell’educazione. L’honnête homme era, anzitutto, un uomo raffinato. […] maniere raffinate e rispettabili come la pulizia, un’etichetta in materia sessuale osservata rigorosamente, una condotta discreta nei luoghi pubblici” (p. 18). Ci troviamo insomma di fronte a una “idea di assimilazione come un’attività essenzialmente individuale” (p. 20).
Idea che si tradurrà in ben determinate scelte professionali: “le carriere legale o medica […] presentavano una particolare attrattiva per gli ebrei che si assimilavano, in quanto «libere» professioni, che potevano essere praticate individualmente e indipendentemente da politiche d’impiego discriminatorie” (p. 20).
L’esito sarà tuttavia paradossale: “Il risultato imprevisto […] fu nuovamente una sovrarappresentazione degli ebrei nelle professioni, e una nuova serie di argomenti di prova della permanente peculiarità degli ebrei”, p. 21.
Oltre a questi pregiudizi che gravano dall’esterno, le due caratteristiche che accomunano gli ebrei desiderosi di essere assimilati (il decoro esteriore e l’individualismo) li spingeranno a una sorta di razzismo interno: “alcuni ebrei dovevano diventare «indegni» e ogni rapporto o affinità con loro doveva essere considerata vergognosa e da stigmatizzare. Gli ebrei veramente ebrei erano visti come dei sabotatori di quella che, diversamente, sarebbe stata sicuramente un’impresa di successo. Essi venivano biasimati per l’incapacità, fin troppo evidente, e tuttavia ostinatamente negata, di seri tentativi di assimilazione” (p. 31).
Mutando prospettiva, a cavallo tra Ottocento e Novecento “I lavoratori ebrei […] scoprirono presto che l’ostilità della classe dirigente ebraica […] era, se possibile, perfino più virulenta: la normale inimicizia di una classe minacciata nei suoi privilegi mescolata con l’onore di una minoranza a stento tollerata che avvertiva un pericolo alla sua accettazione non ancora pienamente garantita”, p. 34.
E così, se per “la parte ebraica degli intellettuali scontenti e radicalizzati […] Unirsi al movimento universale che non conosceva ebrei e gentili era il solo modo in cui potersi liberare dell’handicap dell’ebraicità” (p. 54), “il socialismo ebraico era l’esatto ribaltamento di quanto sopra. […] era rivolto al riscatto della tradizione ebraica liberandola dalla dominazione dei nemici di classe. […] molti socialisti, ebrei nel pensiero e di lingua yddish, vedevano nella società socialista la piena attuazione della stessa spinta redentrice, messianica dell’ebraismo che era stata fatta passare sotto silenzio dagli sforzi congiunti dell’ortodossia ufficiale e dell’élite capitalista che si andava rapidamente «gentilizzando»” (ibid.).
Le porzioni di testo qui riportate, se naturalmente intercettano solo uno degli svariati aspetti della complessa condizione ebraica nell’epoca moderna, forniscono anche un paradigma dell’umano atteggiamento nei confronti delle differenze: non solo chi sente la propria identità minacciata dal diverso tende a conculcarlo, respingerlo o, nella migliore delle ipotesi, a confondere l’accoglienza con l’inclusione paternalistica (che è negazione della diversità); non solo, ma pure chi desidera assimilarsi tende ad abbandonare (se non ad abiurare) la propria specificità, addirittura la propria origine.
In altre parole, con questo saggio Zygmunt Bauman sembra suggerirci che non può darsi un’autentica accoglienza finché l’incontro tra identità e diversità procurerà attriti; ossia finché – da parte di chi riceve come da parte di chi (si) offre – mancherà la piena consapevolezza che la diversità, proprio come l’identità, è il nucleo oscuro e irriducibile di ciascuno.
(pubblicato su Squadernauti il 13 febbraio 2015)