Un segreto che non guardo ma che sta al centro del cortile

Uscito nell’ottobre del 2014 per LiberAria, Un segreto che non guardo ma che sta al centro del cortile, romanzo d’esordio di Chiara Dotta, ci racconta per tappe cronologiche (ciascuna della lunghezza di un capitolo) l’educazione sentimentale e sessuale di Daria.

Tranne due capitoli nei quali sono il padre e la nonna di Daria a prendere la parola, e altrettanti (tra cui il capitolo introduttivo) scritti in terza persona, ascoltiamo le vicende della protagonista direttamente dalla sua voce.

Chi scrive deve confessare i suoi timori (o meglio, pregiudizi) di fronte a questa operazione quasi diaristica: dopo le prime pagine mi sono domandato come avrebbe potuto, l’autrice, mantenersi lontano dalla maniera, nell’affrontare un argomento simile.

A lettura ultimata, posso aggiungere che le centosettantasette pagine del libro contengono tutto ciò che teoricamente avrebbe solo potuto rafforzare il mio pregiudizio: Daria subisce molestie sessuali da bambina, vive tragicomiche esperienze erotiche da ragazzina, da adolescente si imbatte in tutto il campionario della mascolinità e non si nega esperienze omosessuali, da donna vive un rapporto sentimentale adulto dall’innamoramento alla separazione, matrimonio e maternità inclusi.

Invece, al contrario di ciò che paventavo, nelle sue pagine migliori Un segreto che non guardo ma che sta al centro del cortile ha saputo ricordarmi che l’autentica originalità di una narrazione non risiede nella ricerca (spesso, in troppi libri di recente uscita, affannosa) di argomenti inediti, ma nel punto di vista.

E se dovessi riassumere con un solo aggettivo il punto di vista adottato da Chiara Dotta, adopererei la parola onesto.

L’onestà si mostra nel testo sotto diverse sembianze.

Sin dalle battute iniziali, riportate qui di seguito, colpisce la semplicità della scrittura, sia nelle scelte lessicali che in quelle sintattiche; tuttavia si percepisce come una grande apertura dei sensi, una grande attenzione (e accoglienza) nei confronti del mondo: “Daria e i suoi amici giocavano sempre in un triangolo di prato che puzzava di ferrovia. Sul lato nord correvano i binari del treno, che arrivava piano perché la stazione era vicina. Non c’erano altalene o scivoli, solo una fontana e due panchine dove si sedevano alcuni vecchi”, p. 11.

Indagata con occhi così curiosi, la realtà appare come un luogo non solo abitabile, ma pure adattabile alle proprie intenzioni: “Prendevo la statale che dalla periferia portava al centro della città e dopo un centinaio di metri giravo in una strada in mezzo ai palazzi. I binari del treno correvano paralleli alla statale e la via più breve per arrivare a casa di Laura era attraversarli. Quella strada in mezzo ai palazzi diventava un sentiero di terra, che finiva davanti a una recinzione con i riquadri di ferro grigio abbastanza larghi da potersi arrampicare. La scavalcavo, attraversavo veloce i binari e uscivo finalmente dalla porta a vetri della stazione”, p. 25.

Altrove, l’adesione di Daria al mondo è resa per mezzo di metafore tanto piane quanto persuasive: “Il tempo andava via tranquillo e la gente mi faceva intorno un cuscino morbido”, p. 70.

Anche il più abusato degli argomenti, come la descrizione di un bacio, può vivificarsi se lo si considera a partire da un bizzarro limite fisico: “A me dare baci non è mai piaciuto. Ho la lingua corta rispetto al normale, se la allungo tutta davanti alle labbra non arriva più in là di un centimetro anche se sento la pellicina sotto tirare”, p. 97.

Onestà e limiti a volte coabitano in curiose dichiarazioni, nelle quali Daria ci mette a conoscenza di certe sue lacune culturali. Ad esempio: “non capita mica a tutti di vedere il nuovo millennio, se ci pensi gli altri a cui è capitato vivevano nell’anno 999, pieno Medioevo se non sbaglio, con la Chiesa e i castelli e i feudatari, valvassori e valvassini, se non sbaglio, non sono forte in storia”, p. 98.

Le considerazioni per così dire filosofiche, poi, superano indenni il rischio di stucchevolezza, poiché sono espresse in modo ingenuo ma appassionato: “Ogni tanto nel mondo uno si sente un po’ perso, tutto è sempre battaglia. Il posto di lavoro e i tuoi sogni, sempre rincorrere qualcosa, chiedere a uno all’altro, rapporti finti e interessati, lavoro, soldi che non bastano più. Ogni tanto alla gente schiuma la bocca, lo vedi, poi c’è invece chi ha il potere economico, che può mangiare al ristorante della spiaggia tutti i giorni, prendere l’ombrellone, la casa, ma non ce ne sono mica più tanti”, p. 142.

Ma la qualità migliore della scrittura di Chiara Dotta  risiede nella capacità di declinare l’onestà in desiderio; desiderio di esplorare il mondo, impararlo al di fuori delle regole, all’insegna di una sfrontata libertà, che – quasi come ricompensa – consente di dilatare i confini del possibile: “E c’era un nespolo che stava da solo in mezzo a un prato in discesa, vicino a un bosco, io mi son fatta l’idea che limitasse qualche proprietà, e quando era ore di nespole ci salivo sopra. Il nespolo non è molto alto, è nodoso, si può fare. Raccoglievo e mangiavo, anche se le nespole non mi fanno impazzire come gusto. Un giorno ero lì sopra tranquilla, e in mezzo al prato ho visto un animale. Guardo bene: non era un cane, era più piccolo, marroe rossiccio. Aveva la schiena arcuata e la coda grossa rispetto al corpo, pelosa e scura. Era la volpe”, pp. 145-146.

 

(pubblicato su Squadernauti il 16 gennaio 2015)

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