Il poeta dell’aria

Chicca Gagliardo ha scritto per Hacca un libro di ardua collocazione. Intanto, per via del titolo: Il poeta dell’aria. Romanzo in 33 lezioni di volo; poi per la (splendida) copertina di Maurizio Ceccato, forse ispirata al Saut dans la vide di Yves Klein; ma soprattutto per ciò che le trentatré lezioni (che si sviluppano in altrettanti giorni consecutivi, ciascuno corrispondente a un capitolo del libro) contengono.

Già l’aspetto paratestuale, dunque, ci pone di fronte a un’opera insolita, che dovrebbe suscitarci (almeno, ha suscitato in chi scrive) una salutare autocritica: come siamo alla continua ricerca di conferme, di sicurezze, se è sufficiente un libro dalla veste e dall’architettura un poco inconsuete a procurarci un senso di straniamento!

A lettura ultimata, comunque, posso ben dire che Il poeta dell’aria mantiene appieno tutte le promesse di straordinarietà già rinvenibili a un primo colpo d’occhio.

Cosa dice, in questo libro, Chicca Gagliardo? E quanto è sensato tentare un resoconto della trama, inchiodare al detto ciò che in fondo è qui un continuo affacciarsi all’indicibile?

Il poeta dell’aria, a una lettura superficiale, narra la storia di un protagonista anonimo che, dopo un apprendistato, entrerà a far parte dello Stormo, composto da un gruppo di Volatori.

Ma il libro è anche un appassionato scandaglio dell’aspetto ulteriore (ineffabile, irrappresentabile) delle cose: “All’interno di ogni città visibile – tra tetti tegole piazze strade vicoli ciechi – il paesaggio dell’aria scorre trasparente in una metamorfosi incessante” (p. 9); “Ogni città visibile e dura come la pietra ha il suo doppio impalpabile: è lì che si affinano le tecniche chiaroscure del volo”, (p. 167).

Viene perciò espressa la contrapposizione tra i motivi feriali, quotidiani, del vivere, e le accensioni del sogno, i momenti estranei a ogni relazione, catalogazione, utilità: “È notte, le finestre dei palazzi sono buie, tutti dormono rintanati dentro le stanze, schiene che premono sui letti, porte chiuse. Lo Stormo invece se ne sta posato sui tetti tra i comignoli. Fianchi e braccia distesi sulle tegole, i muscoli che dopo il volo sprofondano nel sonno e nella luna”, (p. 19).

Trapela, poi, come l’uscita dal mondo dei rapporti a favore di un punto di vista irrelato e radicale debba prevedere una concentrazione assoluta: “«L’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero»”, p. 105.

Questa è peraltro una citazione tratta da Gli imperdonabili di Cristina Campo, una delle tante voci che attraversano il libro (assieme a quelle, tra le altre, di Marina Cvetaeva, Simone Weil, María Zambrano, Marc Chagall, Emily Dickinson…).

Allora Il poeta dell’aria è anche un omaggio, espresso nella forma di un fitto dialogo in filigrana, a personalità poetiche e artistiche che con le proprie vite e le proprie opere hanno ingaggiato uno strenuo corpo a corpo col limite.

Credo tuttavia che il libro abbia altrove la sua ragione più profonda. Per introdurla, occorre citare un breve ma fondamentale passaggio: “Innumerevoli sono le storie dei Volatori, ma la meta del volo è una sola. Il volo non è uno stato d’animo. È la direzione”, p. 198.

L’abbandono di una prospettiva appiattita sul presente, sui fatti, sulle azioni strumentali, per proiettarsi al cospetto del limite, non porta certezze né guadagni. Anzi, il serrato confronto con la quota di illeggibilità delle cose esclude ogni consolazione, e quindi rivela l’estrema marginalità di ogni esistenza. Unica certezza, appunto, resta la direzione presa. Mai l’arrivo.

E questo volo verso l’ignoto pare proprio corrispondere a quello della parola poetica. “Le parole della poesia si inoltrano nella grande sfida: rappresentare l’irrappresentabile”, scrive Cesare Viviani ne Il mondo non è uno spettacolo.

Ecco allora svelato, forse, il significato ultimo del libro: “Scrivo perché voglio insegnarti l’arte del volo, la consistenza del vuoto e dell’invisibile. La poetica dell’aria”, p. 13.

 

(pubblicato su Squadernauti il 21 novembre 2014)

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