Come recita il sottotitolo, il libro raccoglie quarantadue lettere scritte da Anna Maria Ortese a Pasquale Prunas nel periodo che va dal 17 maggio 1946 al 9 maggio 1959. A queste lettere se ne aggiungono sette (quattro scritte dalla Ortese ad altri, tre scritte da altri alla Ortese) incluse perché strettamente connesse con l’epistolario principale.
Pasquale Prunas fondò e diresse Sud, rivista letteraria edita a Napoli dal 1945 al 1947, che ebbe la Ortese tra i suoi collaboratori.
Questa pur breve raccolta di lettere ci restituisce con estrema chiarezza l’impossibilità di Anna Maria Ortese di abitare la realtà (per cui rimando anche alla citazione ortesiana riportata in chiusura della mia recensione a Mette Pioggia di Gianni Tetti).
Incapace di interpretare persone e cose in chiave utilitaristica, in queste lettere si percepisce una Ortese perennemente sola e spaesata, in continuo affanno nei tempi e nei modi.
In una rapida e non certo esaustiva carrellata, la scopriamo in ritardo nella consegna di un articolo (“sono ancora una volta dolente di aver fatto ritardo”, p. 44), autrice di indelicate richieste di denaro (“Sono disperata perché non posso più continuare il lavoro, […] Debbo avere dei soldi”, p. 51) e di piccoli ricatti morali (“Tu devi pubblicare e compensare come vuoi il mio articolo. Non darmi il dolore di vederlo tornare indietro, mi dispiacerebbe tanto tanto”, p. 63), insistente nel domandare, anche più volte all’interno di un’unica lettera (“Ti prego, Pasquale, scusami se ricorro a te, […] Mi scusi, Pasquale? E mi fai questo favore? Tu o Carla, il più buono o quello che ha più tempo. […] Caro Pasquale, non trascurare la preghiera che ti ho fatto. […], pp. 72-73), dispensatrice di opinabili precetti morali (“Bisogna essere cattivissimi, per riuscire”, p. 90).
Anche in uno dei pochi momenti in cui la Ortese accenna ai motivi profondi dello scrivere, ribadisce la sua distanza dal mondo (corsivo nell’originale): “Mi sembra che una vera e propria cronaca di fatti che accadono, senza un alone non dico letterario ma di immagini, senza un humour, un lievito interiore, sia cosa semplicemente atroce e direi viziosa, inutile come un vizio. […] so che solo una cosa promette di dar pace agli uomini, ed è il senso della divinità della vita, anche se i nostri destini personali siano esclusi dall’immortalità. È solo in rapporto alla poesia, che posso pensare al pane, solo in rapporto alla bellezza, che posso sopportare l’utilità.” (pp. 91-93).
Alla luce di queste lettere (e, da una prospettiva meno parziale, alla luce dell’intero corpus narrativo ortesiano), per prima cosa desidero fare una considerazione. Quanto stolidi, i critici che si ostinano a ricondurre certi atteggiamenti di Anna Maria Ortese a un fantomatico brutto carattere, a un fantomatico narcisismo, a una fantomatica civetteria! Come fanno, questi critici, a non sentire che un così vasto e profondo campionario di inaderenze al reale, da parte della Ortese, non derivava dal calcolo ma dalla totale inettitudine a leggere la vita da un punto di vista strumentale? Perché non sono strumentali le prestazioni lavorative, il denaro che se ne ricava, e più in generale ogni richiesta, diciamo pure ogni comunicazione? Non è in fondo strumentale ogni rapporto, anche quello apparentemente più disinteressato? Per non essere strumentali (per essere davvero disinteressati), parole e gesti andrebbero consumati lontano da tutti e da tutto, non visti né uditi. Forse nemmeno da se stessi.
Da qui torno, per chiudere, alla domanda che – dicevo – mi ha accompagnato per tutta la lettura di questo prezioso librino. La domanda è: può uno scrittore (uno scrittore vero, e certamente Anna Maria Ortese è stata scrittrice vera) essere anche altro? Voglio dire: la scrittura radicale, che è serrato confronto con le estreme possibilità espressive, corpo a corpo con l’indicibile, dedizione massima e incessante, quanto spazio può concedere alle distrazioni, agli appuntamenti quotidiani col mondo?
Quasi tutti gli scrittori contemporanei, quando avvertono il fuoco del limite, tornano indietro, alle attività confortanti: adoperano l’ironia, sentenziano sui social network, si aggregano per moltiplicare la voce e spartire i rischi… Perciò oggi più che mai appare inconcepibile, inumana, la decisione di non retrocedere davanti al fuoco. Dunque la si condanna o sbeffeggia.
Un’osservazione finale. Per quanto la mia piccola cultura possa essermi di conforto, noto che nel Novecento questa scelta di concentrazione assoluta è stata operata soprattutto da donne: oltre alla Ortese penso almeno a Simone Weil, Cristina Campo, María Zambrano.
(pubblicato su Squadernauti il 18 luglio 2014)