Aiuto

L’automobile sobbalza giù per il declivio, prende una buca, si inclina sul fianco sinistro, si raddrizza, slitta sull’erba umida all’ingresso del bosco, centra il fusto di un platano.

Passano le ore.

Enrico ha una gamba intrappolata sotto il sedile del passeggero. Il dolore alla caviglia comincia ad affievolirsi solo adesso che albeggia. Fa caldo, Enrico ha sete. Per tutta la notte ha urlato: aiuto!, aiuto!, dal finestrino frantumato. La strada è lì, una trentina di metri sopra la sua testa, le automobili continuano a sfilare avanti e indietro, eppure nessuno che si accorga di lui.

Una luce sempre più bianca filtra nel bosco, ridisegna a poco a poco l’interno dell’automobile, Enrico si specchia nel pezzo di retrovisore ancora attaccato al supporto, ha tagli sulla fronte, uno più profondo su una guancia.

È sfinito. Quando fa per gridare un’altra volta aiuto, guardando istintivamente verso il punto in cui l’automobile è uscita di strada, vede un uomo.

Che lo sta fissando. Enrico, dall’eccitazione, dà uno strappo alla gamba incastrata. Si morde le labbra dal male. Dopodiché si sbraccia, batte le mani sulla portiera, dice: aiuto!, ho avuto un incidente!, presto!, ho una caviglia rotta!

L’uomo avanza oltre il ciglio esterno della curva. In quel tratto di strada non c’è guardrail. Si ferma dopo aver fatto qualche passo sull’erba. Si mette le mani sui fianchi. Enrico, ormai quasi afono, vorrebbe urlare: aiuto!, ma impegna troppa voce tutta insieme e non ne trae che un fischio. L’uomo si passa una mano sulla nuca, sul mento. Scende di qualche altro passo. Sposta lo sguardo a sinistra, a destra dell’automobile. Enrico cerca di domare il respiro. Adopera il massimo del volume possibile: per piacere, aiuto, mi sento male.

L’uomo, ora immobile, osserva il cofano accartocciato contro il platano, per un tempo che a Enrico sembra infinito e durante il quale pensa: è pazzo, tornerà indietro, o mi ammazzerà a pietrate.

L’uomo riprende a fissare Enrico. Dice qualcosa tra sé. Scrolla la testa. Scende ancora. Sono a meno di dieci metri.

Enrico dice: la prego.

L’uomo bofonchia altre parole.

Enrico dice: mi aiuti. La prego. Mi viene da svenire.

L’uomo chiude gli occhi. Sospira. Riapre gli occhi. Avanza, adagio, verso Enrico. È a due passi dalla portiera. Enrico si sforza di sorridergli.

L’uomo fa un altro passo, Enrico sporge una mano fuori dal finestrino, l’uomo china il capo, Enrico ritrae la mano, guarda l’uomo aggirare il platano, fermarsi davanti alla portiera anteriore del passeggero.

L’uomo prova ad aprire la portiera. C’è la sicura inserita. Il finestrino di quella portiera è ancora intatto e abbassato per metà, l’uomo infila un braccio, toglie la sicura, riprova ad aprire, la portiera ammaccata si schiude appena, l’uomo tira con due mani, gli scappa un verso, la portiera si apre.

L’uomo si china, Enrico gli indica la gamba intrappolata, l’uomo mette una mano sotto il sedile del passeggero, lo solleva di un niente. La prima parola che, con un filo di voce, rivolge a Enrico è: male?

No, risponde Enrico.

Allora l’uomo solleva il sedile con più forza, lentamente sfila la gamba di Enrico, gli si siede di fianco.

Enrico si tasta il polpaccio per riavviare la circolazione. Vede l’uomo nascondersi il volto con le mani. Non capisce. Gli dice: andiamo via.

L’uomo si scopre il volto e, fissando il platano davanti a sé, sussurra: casa.

Enrico ha un brivido. Guarda anche lui davanti a sé. Non il platano ma la profondità ignara del bosco. Poi dice all’uomo, sottovoce e scandendo le parole, come se fino ad allora non fosse stato ascoltato per colpa della qualità dei suoni: per favore, mi porti via, per favore.

L’uomo, sempre fissando il platano davanti a sé, sussurra: la mia casa. Casa mia.

Enrico posa le mani sul volante. Non ha più energie. Continua a guardare il bosco. Tutto è lontano. Si lascia piangere.

Anche l’uomo, sempre fissando il platano davanti a sé, piange.

 

(pubblicato su Konténdi – sito dismesso – il 6 luglio 2014)

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